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Collana Bullet

PROLOGO

Valle d’Aosta, Italia, novembre 2008


Il nastro di asfalto riluceva alla luce dei fanali. Un fitto nevischio rendeva infido il manto stradale. Al di là del guardrail si indovinavano, a fatica, macchie di alberi e prati ondulati. Il traffico, sulla A5, era inesistente.

Il sovrintendente Rinaldo Gelmini si stava chiedendo perché diavolo fosse toccato a lui il turno nella notte più fredda di quell’autunno inoltrato. Scariche di statica, intervallate a brandelli di comunicazioni che non lo riguardavano, rompevano a tratti il silenzio nell’abitacolo. Seduto al posto di guida, l’agente scelto Santo Picariello sbadigliò: non aveva mai superato gli ottanta chilometri orari e la noia era una costante difficile da scacciare.

«Fermati che prendiamo un caffè, questa notte del cazzo non passa più».

Gelmini indicò le luci comparse al termine dell’ampia curva. La 159 della Polizia Stradale deviò. Les Îles de Brissogne, situata poco prima della barriera di Aosta, era l’ultima area di servizio fino al Traforo del Monte Bianco.

Picariello sorrise nel vedere, di fronte al Risto-Bar sempre aperto, un’altra Alfa Romeo. Blu scuro, scritte bianche sui fianchi: Carabinieri.

«Altri disperati» sentenziò Gelmini, con ironia. Nel parcheggio vi­de un Daily bianco, una Mercedes coupè e una vecchia Golf grigia con targa bulgara.

All’interno del locale, due giovani coppie ben vestite, probabilmente reduci da una serata al Casinò de la Valléè, addentavano invitanti panini caldi, bevendo Coca Cola. Un uomo in abiti da lavoro consumava un caffè al banco, proprio a fianco dei militari dell’Arma.

Saluti e strette di mano, battute di rito e qualche complimento scherzoso alla inserviente che servì loro le consumazioni.

«Siamo intervenuti a sedare una rissa tra due marocchini, in uno dei bar dalle parti della stazione: li ucciderei tutti quei balordi». Il brigadiere capo Silvano Mazzoleni era notoriamente un razzista incallito. «Se non altro non è stato un turno del tutto sprecato».

Sogghignò imitato dal suo subalterno, il carabiniere scelto Gian Mattia Petrino.

Gran bella coppia di pazzi, pensò Gelmini, sorseggiando la bevanda calda.

Un uomo entrò nella sala, proveniente dalle toilette al piano interrato. Sul metro e ottanta, muscoloso, indossava uno spesso giaccone scuro di panno, jeans scoloriti infilati in pesanti anfibi. Uno zuccotto gli copriva il cranio rasato. Naso schiacciato, lineamenti duri, di evidente origine slava. Stava per dirigersi verso il bancone quando vide le divise. Sembrò esitare, quindi si volse e, con calma, si diresse all’uscita.

«E questo? Che cavolo ha, paura di noi? Maledetti stronzi, tutti con qualcosa da nascondere…»

Gelmini non fece tempo a obiettare che già il carabiniere si era avviato dietro allo sconosciuto, apostrofandolo con tono imperioso: «Ehi, tu, aspetta un attimo!»

Questa volta l’uomo non esitò: roteò su sé stesso, distendendo il braccio sinistro. La canna della MP-443 Grach eruttò fiamme. Mazzoleni incassò due proiettili calibro 9 millimetri che gli fracassarono il cranio. Il corpo fu spinto indietro di alcuni metri. Cadde ai piedi di Petrino, paralizzato dalla sorpresa: un secondo dopo morì anche lui, trapassato alla gola, ribaltandosi di schiena sul banco bar, tra svirgolate di sangue e liquidi organici.

Il locale divenne una bolgia infernale: le coppie ribaltarono i tavolini ai quali erano sedute. Le ragazze strillarono in preda al panico, cercando una via di fuga. L’uomo vestito da lavoro fu scaraventato contro una vetrinetta contenente bevande, centrato allo stomaco da un proiettile vagante; le due inservienti si gettarono sul pavimento, al riparo del bancone.

I due poliziotti erano riusciti a impugnare le Beretta: Picariello sparò, mancando il bersaglio che stava tentando di abbandonare la scena. I vetri della porta esplosero, lo slavo rotolò in avanti per evitare le schegge, si riallineò, continuò a sparare. Uccise l’agente con due colpi al centro di massa nel momento in cui Gelmini gli piazzava un proiettile nel braccio destro.

Il sovrintendente non riusciva ancora a credere a ciò che stava accadendo ma continuò a fare fuoco: lo slavo fu colpito al collo, sangue scuro zampillò verso l’alto. Ricadde di schiena, esplodendo altri colpi.

Gelmini sentì il dolore diffondersi lungo il fianco sinistro, dallo stesso lato la gamba cedette. Con orrore intravide il sangue scurire il tessuto della divisa. Non avrebbe mai saputo se fosse stato il panico o la furia a fargli vuotare il caricatore: l’assalitore a terra si contorse, dal corpo eruttarono carne e sangue in emulsioni di colore malsano.

Il silenzio cadde pietoso sulla scena, invasa dal fumo e dall’odore della cordite, al quale stava mischiandosi quello metallico del sangue.

Gelmini stava immobile, a terra, gli occhi spalancati, il respiro affannoso. Per alcuni istanti eterni nulla si mosse. Poi, alla sua sinistra, si avvicinò una delle cameriere. Era chiaramente sconvolta ma riuscì a inginocchiarsi a fianco del poliziotto ferito, allungando una mano per toccarlo, quasi non credesse che lui avesse posto fine per davvero a quel macello.

Gelmini inspirò, l’arma gli scivolò di mano. Al secondo tentativo riuscì a parlare; la voce rauca gli usciva a singhiozzi: «Un ambulanza… chiamate un’ambulanza!»

Infine, il buio lo accolse.