Collana Nero Inchiostro
 

Carate Brianza, giovedì 6 giugno 1991


Questa sera il tempo regge, ma i temporali degli ultimi giorni hanno ingrossato il Lambro; una massa d’acqua scura sta scorrendo rumorosa sotto i miei piedi. Sono appoggiato alla piccola balaustra metallica dello stretto ponte che divide Via Fiume da Via Sette Gocce. Sette Gocce, che razza di nome è per una via? Chi è quel fenomeno che se l’è inventato, avevano terminato tutti i santi, poeti, navigatori ed eroi nazionali?

Ho parcheggiato la Panda più a monte, in uno spiazzo a fianco di un rudere di casa dalla strana forma di una torre. La zona è tranquilla, nei dintorni ci sono poche case abitate da persone che si fanno i fatti loro e qualche piccola azienda a quest’ora chiusa. Non è nemmeno ora di transito per i ciclisti che, salendo lungo Via Sette Gocce, metterebbero a dura prova polpacci e polmoni sulla ripida salita dell’Orlanda. Altri, invece, proseguirebbero per Via Fiume dove, un centinaio di metri più avanti, una sconnessa e sterrata ciclabile segue il corso del Lambro attraversando boschetti e campagne. È il regno dei patiti della mountain bike. Contenti loro.

Guardo l’orologio, sono quasi le venti e trenta, l’ora fissata per l’appuntamento. La scelta del luogo l’ho valutata con scrupolo. In caso di guai ho due possibili vie di fuga, oltre alla certezza di non avere né occhi né orecchie indiscrete nel raggio di decine di metri.

Un’automobile sta scendendo da Via Sette Gocce scalando le marce, rallenta all’ingresso del ponticello e si ferma. Puntandomi contro i fari non mi permette di vedere chi ci sia alla guida. Siamo in periodo di ora legale, è ancora chiaro ma questa è zona di boschi, ormai la luce filtra a fatica. L’autista attende qualche secondo, poi accelera e mi passa davanti. Come arriva al termine del ponte si ferma. Si apre una portiera e scende la persona che stavo aspettando. È un tizio basso di statura, calvo, porta occhialini da miope, veste sportivo e sul volto ha un’espressione del tutto insignificante. Mentre si avvicina gli guardo le mani. Sono vuote, almeno una non dovrebbe esserlo. Gli vado incontro, lo sovrasto di almeno venti centimetri e, appena a tiro, gli punto contro l’indice della mano destra.

«Dove sono i soldi?»

Congiunge le mani, pare stia per mettersi a pregare, mi risponde con un filo di voce.

«La prego, la scongiuro, io non…»

«Ti ho chiesto dove cazzo sono i soldi!»

«Non li ho, non li ho… l’azienda non va bene, è un periodo tremendo, ho dovuto mettere buona parte degli operai in cassa integrazione».

Tipica reazione, manca solo che si metta in ginocchio a piangere. Apro la mano, gli afferro l’elegante polo firmata e inizio a stringere.

«Certo, come no, gli altri in cassa integrazione mentre tu continui ad andare in giro in Mercedes. Sai come sarebbero contenti i tuoi operai di sapere che ti sei parato il culo creandoti un tesoretto in Svizzera? Amico, sappiamo tutto di te… e adesso tira fuori i soldi o ti metto a testa in giù dentro il fiume. Non farmi incazzare, non ho tempo da perdere. Te lo ripeto per l’ultima volta, tira fuori i soldi».

Non si muove, continua a fissarmi con espressione supplichevole, sta per mettersi a piangere per davvero. Gli metto le mani attorno al collo.

Guardo oltre la sua testa. Mentre mi rendo conto che il tizio, piantando l’auto in mezzo alla strada, mi ha ostruito una via di fuga, per un attimo ho la sensazione che ci sia qualcosa di strano. L’istinto mi manda un preciso segnale di pericolo, sono anni che faccio questo mestiere e me la sono sempre cavata benissimo, eppure da qualche mese avverto come un senso di stanchezza, non fisica ma mentale, accompagnato da una sempre più insistente sensazione di nausea.

Non agisco, sto fermo a pensare con le mani strette al collo di questo pusillanime che neanche tenta di reagire. Un paio di metri più avanti, dal lunotto posteriore della Mercedes spunta prima una chioma di capelli biondi, subito dopo una piccola fronte corrugata e infine due grandi occhi azzurri. Questo idiota, a un appuntamento del genere, si è portato dietro la figlia.

Lei mi fissa, ha lo sguardo severo, dovrebbe essere spaventata per la situazione nella quale si trova il padre e invece guarda me. Come se ubbidissi a un comando, mollo la presa e lascio cadere le mani lungo i fianchi. L’altro se le porta al collo, per massaggiarsi, e intanto muove qualche passo all’indietro.

Sua figlia e io continuiamo a fissarci, lo sguardo di rimprovero di una bambina mi ha come anestetizzato quattro sensi su cinque. La vista non mette a fuoco i lampeggianti delle volanti che arrivano una da Via Fiume, un’altra da Via Sette Gocce. L’udito percepisce attutite le intimazioni a non muovermi, ad alzare le braccia. L’olfatto avrebbe dovuto annusare per tempo la puzza di bruciato, e non l’ha fatto. Quando due paia di mani mi torcono le braccia all’indietro e mi ammanettano, avverto a malapena il rude contatto. Solo il gusto funziona ancora a dovere. La nausea per questo genere di vita mi riempie la bocca.