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Collana Giallo Grano

 I

Quel primo pomeriggio d’agosto il Commissario Capo Pasquale Berricchillo era a un tempo ansioso e incazzato. Ansioso per la salute dell’anziana madre, da due ore sotto i ferri per un’operazione alla cataratta, ad Avellino. Incazzato con la sorella che, dopo essere riuscita nei giorni precedenti a nascondergli la notizia, quella mattina, al telefono, quando le aveva chiesto di passargli la mamma si era tradita, rimanendo senza parole e poi scoppiando in uno dei suoi insopportabili piagnucolii.

Benedetta donna! Ci voleva tanto a trovare una scusa? Bastava dire che la mamma stava riposando e lei non voleva disturbarla. Mai e poi mai lui avrebbe sospettato qualcosa, e l’indomani Maria avrebbe potuto comunicargli l’esito positivo dell’operazione. Si sarebbe incazzato lo stesso, era vero, perché l’aveva tenuto all’oscuro, ma almeno si sarebbe risparmiato la snervante attesa.

Consultò per l’ennesima volta l’orologio. Le due del pomeriggio. Perché tardava a telefonare, quella cogliona?

S’alzò di colpo dalla scrivania e s’avviò alla finestra. Meccanicamente, non certo per distrarsi col paesaggio: da lì, al secondo piano del Commissariato, si vedeva solo via Nilo Garbusi all’incrocio con via XX Settembre, uno scorcio di città deserto e arroventato dal sole, che dardeggiava su nel cielo velato di nuvole d’afa. L’unica presenza era una cicala che, nascosta tra le fronde di un albero del giardino di fronte, friniva con ossessionante insistenza.

Già: a quell’ora canicolare a Sarzana erano tutti tappati in casa o nelle vicine spiagge della riviera. Per fortuna nell’ufficio funzionava un condizionatore.

Era rimasto lì durante la pausa del pranzo perché non aveva appetito, e sperava di distrarsi un po’ esaminando qualche pratica di routine. Ma sapeva fin troppo bene che non l’avrebbe tranquillizzato nemmeno il colpo di telefono promesso da Maria a intervento concluso. Avrebbe tirato un sospiro di sollievo solo dopo aver constatato di persona le buone condizioni della madre, cosa che avrebbe potuto fare l’indomani, per fortuna: gli avevano già accordato un permesso di due giorni e sarebbe partito in treno quella notte stessa.

Una figura sbucata dietro l’angolo di via XX Settembre richiamò la sua attenzione. Il fatto che qualcuno s’avventurasse per le strade infuocate era di per sé rimarchevole, ma quella donna faceva ben di più per farsi notare: si era fermata sul marciapiede opposto, e guardava smarrita verso la palazzina del Commissariato, nel tipico atteggiamento di chi, a un passo dalla meta, è colto dall’ultimo dubbio. Bella donna, a quanto poteva vedere: piuttosto alta e snella, vestita con una tunica gialla stretta alla vita da una spessa cintola di cuoio con una grande fibbia argentata. Il colore dell’abito ne metteva in risalto la splendida abbronzatura. Niente cappello: a ripararle la testa dai raggi roventi era un caschetto di capelli castano scuro. Completavano l’abbigliamento una borsetta a tracolla, in tinta con la tunica, e un paio di sandali col tacco, anch’essi giallo chiaro. Col suo occhio allenato di scapolo quarantaseienne, Berricchillo notò che aveva un seno prosperoso e polpacci affusolati. Solo il viso, ecco, ad essere pignoli, era un po’ troppo allungato, vagamente cavallino. E anche le movenze, quando la donna infine si mosse verso l’entrata al pubblico, in piazza Vittorio Veneto, si rivelarono non aggraziatissime: il passo era dinoccolato e ancheggiante, a imitazione delle modelle, ma il busto, nello sforzo di mantenersi eretto, finiva per inclinarsi troppo all’indietro.

Berricchillo all’improvviso ricordò. Sarzana non era poi così grande, e quella donna la conosceva, anche se solo di vista. Quel suo particolare incedere non passava di certo inosservato, e le era valso un soprannome pieno di sottintesi peccaminosi: “Cavallona”. L’aveva sentito pronunciare un volta da un gruppo di ragazzotti in piazza Garibaldi, dopo che lei aveva percorso tutto il marciapiede fra la scollacciata ammirazione maschile.

Un po’ in colpa per essersi abbandonato a quelle divagazioni poco consone al momento, il Commissario si ritrasse dalla finestra.



Adesso che la Cavallona era seduta dall’altro lato della scrivania, Berricchillo si domandava che cosa potesse aver indotto il suo vice, l’Ispettore Superiore Lanfranchi, a infrangere la consegna di non disturbarlo per nessun motivo e, soprattutto, che cosa potesse aver convinto lui ad acconsentire alla pretesa della donna di parlare con il Commissario in persona.

Lanfranchi non era un tipo tenero, né facilmente suggestionabile. Da buon padre di famiglia cinquantenne con moglie e tre figli a carico, non era nemmeno troppo sensibile al fascino femminile. Inoltre, per orgoglio ci teneva a dimostrare che riusciva benissimo a cavarsela da solo.

Quanto a lui, pur piacendogli la compagnia delle belle donne, e questa da vicino si confermava più vistosa che bella, nelle questioni di lavoro era estremamente serio, anche quando non aveva una grossa pena nel cuore come quel giorno a frenare eventuali esuberanze. Inoltre, nulla lo indisponeva come le persone invadenti.

La spiegazione, però, stava davanti ai suoi occhi, già intuibile osservando l’atteggiamento della donna in strada. La procace signora in giallo, abbronzatissima e un po’ volgare, immortalata da quel soprannome irriverente, era spaventata a morte.

Ecco perché sia lui che Lanfranchi erano rimasti colpiti da lei.

La Cavallona lo fissava torturando con le dita nervose la borsetta, appoggiata sulle ginocchia, i lineamenti spigolosi del lungo volto resi ancor più duri dall’espressione corrucciata.

«Qual è il problema, signora…» Lanfranchi gli aveva detto il nome, ricordava solo che cominciava per B ed era piuttosto lungo.

«Bettelani» rispose la Cavallona, «Luisa Bettelani».

Aveva una voce sgradevole, roca e ingoiata. Per di più con un accento dialettale molto spinto. E la cadenza sarzanese non era di certo melodiosa, ma ruvida e burbera come la gente di quei luoghi. In altri termini, parlare nuoceva molto alla donna, confermando la grossolanità che traspariva dal modo di vestire e di muoversi.

«Bene. Perché ha bisogno della polizia?»

Aveva cercato di metterla a suo agio con un tono colloquiale ma lei, confusa e agitata, rimaneva a guardarlo senza parole.

Berricchillo pensò che la intimidisse la sua imponenza. Sapeva per esperienza che non era facile fronteggiare un commissario di polizia occhialuto e alto quasi due metri. Per di più, nella sua voce doveva essere trapelato un po’ del nervosismo che gli covava dentro per il problema sanitario della madre.

Lo pensò ma subito, osservandola bene, si ricredette: la signora Bettelani non riusciva a parlare per la grave preoccupazione che la tormentava.

Cercò di aiutarla divagando. «Dove abita, signora?»

«All’Olmo» rispose, indicando, come nell’uso locale, la zona raggruppata intorno alla via Aurelia in direzione di S. Stefano Magra.

«Che mestiere fa?»

«La donna di servizio» fece la Bettelani, tradendo con l’uso di quel termine poco elegante, anzi vagamente dispregiativo, la sua mancanza di sensibilità. Al sentirlo, Berricchillo rimpianse gli eufemismi forse un po’ ipocriti “domestica” o “collaboratrice familiare”.

La signora Bettelani, evidentemente, era una di quelle donne rozze che facevano della cura dell’aspetto uno strumento di emancipazione sociale. Ne aveva conosciute parecchie: a vederle, si poteva anche scambiarle per signore, e se fisicamente avvenenti esserne attratti, ma a conoscerle cascavano le braccia.

E tuttavia questa, forse perché resa fragile dall’angoscia, gli era quasi simpatica. Anche dichiarare senza pudori che serviva in casa d’altri poteva essere, dopotutto, una dimostrazione di orgoglio.

«Il problema per cui è venuta riguarda il suo lavoro o la vita privata?» provò a chiedere, addolcendo ancora di più il tono. «A proposito, è sposata?»

«Sì,» si affrettò a rispondere, «ma lui non c’en­tra!»

Ecco, forse aveva toccato il tasto giusto. Se si preoccupava di tener fuori il consorte dalla faccenda che la angustiava, significava che vi era coinvolto.

«Che lavoro fa suo marito?»

«Barista. Ha un bar in centro insieme a un amico,» precisò di malavoglia, «ma io, vede… io sono qui perché… perché ho paura che sia successo qualcosa all’ingegner Colasanti, ecco».

«L’ ingegner Colasanti? Chi è?»

«Faccio i lavori in casa sua. Un villino sul vialone di Marinella, vicino all’Hotel Mogol, poco prima del cavalcavia, sa? È dirigente di una fabbrica di cemento, a Carrara».

«Ah. E perché sarebbe in pericolo, questo ingegner Colasanti?»

Invece di spiegarsi, la Bettelani sbottò in un drammatico: «La prego, bisogna andare a vedere! Ho paura che sia morto!» e scoppiò in singhiozzi coprendosi il viso con entrambe le mani.

Berricchillo rimase di stucco. La donna aveva chiaramente i nervi a fior di pelle, ma non si aspettava di vederla crollare così di schianto.

«Si calmi, signora, si calmi,» fece, «non faccia così!» Si alzò, fece il giro del tavolo e cercò di blandirla chinandosi su di lei e dandole leggere, titubanti pacche sulle spalle. Era imbarazzato, come sempre di fronte a una donna in lacrime. «Vedrà che si sbaglia!» tentò di consolarla alla cieca. «L’ingegnere è ancora vivo…»

«No! no! Altrimenti perché non mi risponde nessuno al telefono?»

Questa affermazione risvegliò d’un tratto l’interesse investigativo di Berricchillo. Che razza di discorso era, quello? Urgeva approfondire. S’affrettò a tirar fuori la fermezza necessaria a riprendere in pugno le redini del colloquio.

«Basta! La smetta!»

La donna, sorpresa da quell’improvvisa scortesia, cessò di singhiozzare levando su di lui gli occhi smarriti.

Il commissario tornò al suo posto continuando a fissarla severo.

«E che diamine! Se vuole che l’aiuti, mi deve spiegare tutto per filo e per segno! Cos’è questa storia delle telefonate a vuoto? Secondo lei se uno non risponde al telefono è morto?»

«Ma è tutta la mattina che provo…» biascicò la donna, frugando nella borsa alla ricerca di una fazzoletto.

«E con questo? La mattina si esce, cara signora. Si va a far compere, a passeggio, in spiaggia… O forse l’ingegner Colasanti soffre di qualche grave malattia? E allora perché non ha chiamato il Pronto Soccorso, invece di venire da me?»

«No, no, di salute sta bene…» spiegò la Bettelani che per riprendersi, evidentemente, aveva proprio bisogno di qualcuno che la sferzasse. «Il guaio è che in casa non è solo, e neanche la moglie e i figli rispondono…»

C’erano gli estremi per considerarla una mitomane o una nevrotica. Una famiglia si rendeva irreperibile per mezza giornata, in pieno agosto, e lei si preoccupava in quel modo, fino a richiedere l’intervento della Polizia, anzi, del Commissario in persona? Che attaccamento, perdiana! Va bé che le donne di servizio dopo un po’ tendono a affezionarsi, ma qui c’era qualcosa di eccessivo, di morboso…

«E con questo? Saranno andati a fare una bella gita!»

«No, no, non è possibile. Ieri sera l’ingegnere e la moglie hanno litigato!»

Sempre più incomprensibile e, nel contempo, più interessante. Continuando sulla linea della sdrammatizzazione sarcastica, Berricchillo commentò: «Avranno fatto la pace. Fra marito e moglie capita spesso, no? A lei non è mai capitato?»

«Ho paura di no! È stato un litigio terribile, terribile!» La Bettelani scoppiò di nuovo in sonori, disperati singhiozzi.

Berricchillo la lasciò per un momento sfogare. Da quei primi frammentari elementi era già possibile tracciare un quadro della situazione.

Il Commissario non era un pettegolo, ma se una domestica giovane e di bell’aspetto si mostrava tanto in ansia perché il suo datore di lavoro aveva avuto, lei presente, una lite tempestosa con la moglie, si poteva legittimamente sospettare che la signora Colasanti, la sera prima, aveva sorpreso il marito in atteggiamento intimo, o giù di lì, con la Cavallona…

Niente di strano se il giorno dopo il telefono di quella casa rimaneva muto: incidenti del genere provocano vere e proprie diaspore: la madre se ne va da una parte, il padre dall’altra, i figli chissà dove…

Perché allora questa rovina famiglie era così terrorizzata da venire fino in Commissariato a chiedere aiuto per l’amante, senza preoccuparsi di mettere in piazza il suo adulterio?

«Basta!» la redarguì di nuovo. «Con i pianti non si risolve niente. Se le sta a cuore l’ingegnere, deve ritornare in sé!»

Quell’argomento parve produrre il suo effetto. La donna fece forza su se stessa, riuscendo a frenare i singhiozzi. Dalla sua gola usciva ora un piagnucolio più sommesso.

Fissandone severamente il viso disperato, Berricchillo chiese: «Che cosa teme, di preciso?»

La Bettelani esitò un attimo prima di rispondere. «Ho paura che lei l’ha ucciso».

Ah, dunque a questo eravamo. Al timore di un delitto passionale. Un omicidio commesso da una donna folle di gelosia, in una tranquilla villetta sul vialone di Marinella… La Bettelani aveva una visione un po’ troppo drammatica delle cose.

«Addirittura!»

«Lei non ha visto com’era cattiva! Gliel’ha anche urlato in faccia, a Tullio, che l’ammazzava!»

«Sì? Senta, per cortesia, racconti meglio…»

«No, no, la prego! Non c’è tempo! Bisogna andare a vedere cos’è successo!»

Per l’ennesima volta da quando quella donna era irrotta nella calma pomeridiana del Commissariato, Berricchillo era combattuto. Tutto suggeriva di liquidare le assurde fobie della Bettelani, una esagitata che verosimilmente aveva bisogno non della polizia, ma di una buona cura per i nervi, tuttavia, chissà perché, continuava a intravedere nella sua sproporzionata apprensione un fondamento genuino…

Rimase un attimo sovrappensiero poi, d’impulso, decise. Ma sì, al diavolo, che male c’era ad accontentarla? Non aveva niente di meglio da fare, e un rapido sopralluogo a casa dei Colasanti – non avrebbe richiesto più di mezz’ora – era un diversivo che l’avrebbe aiutato a ingannare l’attesa di quello squillo dall’Irpinia…