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Collana Verde Mela

1.

Non devi illuderti di essere qualcosa che non ti appartiene realmente, qualcosa che non ti rappresenta del tutto.

Sono chimere che ti vengono imposte, devi scacciarle e rifiutarle con decisione senza troppi ripensamenti. Ad esempio non sei nessuno dei numerosi libri che ti è toccato leggere nel corso della tua esistenza. Non il nome od il cognome che ti sono stati affibbiati senza diritto di replica. Non sei né il tuo percorso di studi, né il lavoro che ti è stato consegnato dopo tanta fatica e per il quale sudi ogni giorno ripetendo gli stessi meccanici gesti. Non sei nemmeno i tuoi affetti, non la tua ragazza, non i tuoi genitori, non il tuo cane. Per quanto possa sembrarti strano o inaccettabile alla fine risulta tutto dannatamente effimero. Spogliati di tutto questo, di tutto questo e di altre mille illusioni, solo allora, forse, scorgerai il vero te. Il problema a questo punto è che se non siamo un mucchio di cose, resta da capire cosa cazzo siamo, cosa resta...

Quando tutto è già stato pensato, scritto o detto, è difficile cogliere una purezza immacolata nelle idee, ma in lui c’era il tempismo. Concetti, consigli, frasi e parole. Ora solo ricordi sparsi dal vento. Così mi parlava Mark un tempo, ora non può più farlo. Doveva sempre dire la sua su tutto, per sua fortuna spesso sapeva esattamente cosa dire. Lo stavi a sentire, lo osservavi in ogni suo minimo gesto, e avevi la netta sensazione che si trovasse su un livello estraneo al tuo, distante, elevato. Un qualche dio benevolo aveva saputo dispensare in lui la giusta dose di pazienza e precoce saggezza.

Invece quel giorno mi ritrovai lì, da solo seppur circondato da un’infinità di volti, con la testa colma di pensieri e ricordi a cui non riuscivo a trovare un senso. Il parco davanti la vecchia chiesetta di paese era sempre stato un po’ bigiognolo, ma in una giornata come quella riusciva a dare il massimo. Piccolo, con poche panchine e poco verde, ma protetto da alti e rigogliosi alberi. Due stradine lo attraversano, intersecandosi formando una croce d’asfalto. Pioveva, una di quelle piogge violente e fitte, che ti danno l’impressione che siano lì apposta per te, per punirti, per espiare qualche peccato. Sembravano non provare pietà alcuna quelle gocce che cadevano da chissà dove, come un violento esercito in picchiata. Ogni aspetto della realtà sembrava esser stato privato del suo colore originario, della sua intima essenza: ogni cosa aveva assunto sfumature cupe. Dal cielo, uniforme e tetro, a tutto ciò che sotto di esso si trovava. Le nuvole probabilmente erano nascoste da qualche parte, ma mi risultava dannatamente difficile scorgerne anche solo una, cosicché con la testa all’insù al centro del piccolo parco dove le strade si incrociano, oltre alle foglie degli alti alberi non vedevo che un’immensa distesa di grigio. Dal basso saliva penetrante quel tipico odore di strada bagnata che mi pervase ogni senso. Tutt’attorno percepivo ad una ad una ogni goccia che al termine della sua veloce discesa provocava un colpo sordo.

Eppure lì non arrivava la pioggia.

Questo mi ripetevano continuamente i miei pensieri, quasi senza che me ne rendessi conto. Posai lo sguardo sulla sigaretta appena accesa, nonostante il diluvio incessante non era stata colpita nemmeno una volta e la carta risultava intatta. La portai alle labbra e feci l’ennesimo tiro, poi voltai nuovamente il capo verso l’alto. Tutto era così freddo e distante, le persone, le loro voci, il parchetto, la città che si risvegliava. Osservai sopra la mia testa le numerose foglie che ricoprivano i lunghi rami degli alberi e scoprii l’origine del tutto. Lì non arrivava la pioggia. Il mondo circostante ne era colpito, ferito, correva al riparo, apriva gli ombrelli, ma io restavo al mio posto e facevo un altro tiro di sigaretta senza muovermi di un passo. Perché qui non riusciva ad arrivare. M’immaginai immerso nel profondo di una selvaggia foresta pluviale, statuarie palme del sud al posto dei castagni comunali mi proteggevano da ogni male con le loro larghe foglie. Riportato alla realtà da un improvviso colpo di tosse mi resi conto che in fin dei conti il principio era il medesimo. Per una fortunata coincidenza di intrecci e sovrapposizioni il punto che avevo scelto per fumare prima di entrare risultava sovrastato da un verde ombrello naturale, che solo poche gocce svogliate riuscivano a penetrare. Come in una campana di vetro, come sotto l’effetto di un incantesimo. La stranezza mi colpì, tanto più che trovandomi in campo aperto non mi aspettavo potesse esistere un luogo dove poter restare asciutto. Un luogo non artificiale intendo.

Mi guardai un po’ attorno e tutto sembrava muoversi al rallentatore. Lì ero protetto, lì il tempo sembrava scorrere senza preoccupazioni e ogni problema precedente restava bloccato fuori. L’odore dell’asfalto bagnato sempre più intenso, il rumore dell’acquazzone ogni secondo più fragoroso e io nel mio angolo, difeso dalle alte fronde, sempre più alienato. Chiusi gli occhi e buttai giù un ultimo tiro, per poi lanciare con un colpo d’indice il mozzicone lontano, facendo centro in una pozzanghera. Lo raggiunsi e lo pestai tre volte più una. La prima paglia della giornata era sempre la più pesante, così mi ritrovai a respirare a fatica. Mi soffermai ancora qualche istante dove la pioggia non riusciva ad arrivare a prendere grosse boccate d’aria fresca, quando una voce mi raggiunse alle spalle.

«Davvero un brutto tempaccio eh?»

Era un certo Simone, uno dei tanti conoscenti di Mark. Per quanto mi riguarda lo conoscevo quel tanto che bastava da riuscire ad associare un volto a un nome, nulla di più. Ma quelle occasioni sembravano essere dei rinomati incentivi alla socializzazione. Mi voltai verso di lui mollemente, non avendo per nulla voglia di parlare con qualcuno, eppure mi mantenni timido e fin troppo cortese. Le convenzioni sociali e la buona educazione riuscivano sempre a prevaricare i miei bisogni a favore di quelli altrui. Perfino quel giorno. Perché spesso le persone non riuscivano a rimanere semplicemente in silenzio? Così cercai di rispondergli cordialmente, ma credo che mi uscì un tono svogliato.

«Già, anche il cielo doveva mettersi in mezzo oggi...però guarda, qua non arriva la pioggia».

Simone si rivelò subito per quello che era: uno dei numerosissimi iscritti al club “ascolto ma non sento, in realtà aspetto solo il mio turno per parlare”. Non ci feci molto caso, l’abitudine fu ancora una volta dalla mia. Situazioni già viste e riviste, strade battute troppe volte per provare qualcosa all’infuori dell’indifferenza.

«Hai ragione non ci avevo fatto caso. Senti non è che hai una sigaretta da offrirmi?»

«Ma certo» gli risposi.

Tirai fuori il pacchetto e gliene offrii una di controvoglia ma con la mia maschera sorridente.

«Grazie mille» disse.

Tirai fuori di tasca l’accendino e gliela accesi.

«Mi dispiace davvero molto...non so che dire. Eravate molto legati vero?»

«Già, quasi un fratello...» confermai facendomi cupo in volto. Odiose frasi di circostanza, odiosa necessità di aprire la bocca.

«Coraggio, cerca di farti forza, di farvi forza...»

Lasciammo passare qualche interminabile secondo di imbarazzante silenzio, nessuno dei due aveva realmente qualcosa da dire. Mi guardai i piedi nell’attesa di una fine, un deus ex machina. Poi lui mi diede due pacche sulla spalla e mi fece:

«Dentro mi hanno detto di chiamarti, che tra pochi minuti dovrebbero iniziare, è meglio se entriamo. Sono già quasi tutti seduti. Anche Gaia è già dentro».

«Hai ragione non me n’ero accorto: si è fatto proprio tardi. Grazie tante».

Ne approfittai per separarmi dalla sua compagnia e m’incamminai verso l’ingresso della chiesa. Pochi passi e la magia si spezzò, in cinque secondi ero bagnato fradicio.