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Collana Nero Inchiostro

8 DICEMBRE

Ore 00:00

La strada è sconnessa, fitta di pozzanghere e contornata da una striscia ininterrotta di erba incolta che si allarga prepotente a conquistare l'asfalto. Divide a metà una lunga teoria di capannoni, tutti identici, mastodontici, abbandonati. L'ultimo è disposto di traverso: la strada va a morirci contro attraversando una cancellata spalancata, sbilenca e rosa dalla ruggine.

La struttura è fatiscente: vetri rotti, lamiere bucate, calcinacci sparsi ovunque. Solo la porta scorrevole è in buone condizioni, il metallo dritto e intatto, la guida oliata di fresco. L'interno, grande come un mezzo campo da calcio, è buio e il chiarore che filtra dall'esterno lascia distinguere appena, incastrato in un angolo, il contorno di una struttura di lamiera che in tempi migliori ospitava gli uffici.

L'uomo che si fa chiamare Frank è là dentro, in piedi di fronte alla finestra che offre una vista perfetta sulla strada di accesso. È vestito di nero e se ne sta al buio, le braccia conserte, il respiro tranquillo, lo sguardo che fissa in avanti senza un battito di ciglia. Soltanto quando vede apparire i fari di un'auto si scuote, fa un passo indietro, chiude gli scuri che sigillano alla perfezione la finestra e cala sul viso il passamontagna che ha arrotolato sul capo. Poi accende la luce. A dispetto di come appare dall'esterno la stanza è grande, con al centro un tavolo da lavoro su cui è distesa una carta stradale.

Il rumore dell'auto si avvicina, rimbomba nel vuoto del capannone prima di morire quando il motore viene spento. Pochi passi, poi un uomo varca la soglia dell'ufficio e fa qualche passo all'interno: si salutano con un cenno del capo, senza parlare, prima che il nuovo arrivato occupi una delle sedie disposte su tre lati del tavolo, lanciando un'occhiata distratta alla carta stradale. La scena si ripete a intervalli regolari, finché tutte le sedie sono occupate: sette uomini che non si conoscono – almeno pare – seduti in silenzio come scolaretti in attesa dell'insegnante.

L'uomo che si fa chiamare Frank fa un passo indietro e li scruta uno per uno, annuendo. Poi si avvicina al tavolo e inizia a parlare, il tono profondo e sicuro, accompagnando le parole con movimenti dell'indice che tracciano percorsi invisibili sulla carta stradale. Lo ascoltano in silenzio e soltanto quando ha terminato c'è spazio per qualche rara domanda, qualche dubbio irrisolto. Tutto dura poco più di un'ora, poi come sono venuti i sette iniziano ad andarsene, rispettando ordine e tempi, ben chiaro in testa ciò che devono fare.

L'uomo che si fa chiamare Frank rimane ad aspettare ancora un po', fino a quando anche il rumore dell'ultima auto finisce inghiottito dal silenzio cupo che avvolge la pianura. Poi torna a sollevare sul capo il passamontagna ed esce all'aperto. La notte è limpida, fredda, per una volta risparmiata dal ristagno umido della nebbia. Si appoggia con la schiena alla porta scorrevole del capannone e accende una sigaretta, che fuma con calma, ripassando con la mente il lavoro che lo aspetta. Mezzanotte è passata, ma c'è ancora qualcosa da fare.


15 DICEMBRE

Ore 19:20

Milano è un caleidoscopio di luci, suoni e odori, una casbah del lusso fatta di vetrine che rigurgitano ogni varietà di oggetto purché costoso, appariscente, superfluo. Serena si fa largo nella calca sfuggente, inseguita dal sottofondo dei canti natalizi, la borsetta Saint Laurent appesa al braccio sinistro, nella destra un assortimento di buste colorate di marchi altrettanto famosi. I tacchi degli stivali Prada ticchettano sul selciato, superano marciapiedi e semafori, affrontano sicuri la rampa che scende al garage sotterraneo. Lì mezza giornata di sosta costa un occhio, ma a due passi da San Babila non c'è da stupirsi ed è comunque l'unica alternativa allo snervante, infinito girovagare in cerca di un parcheggio libero.

Sistemati i pacchetti nel bagagliaio Serena siede alla guida, lasciandosi avvolgere dal morbido contatto dei sedili in pelle. Un cenno distratto al custode che la scruta impassibile di là dal vetro del gabbiotto, poi il serpente del traffico la inghiotte, quasi trascinandola verso i viali della periferia. La Mercedes procede a passo d’uomo prigioniera del fiume di metallo in lento divenire che riempie le strade, ma Serena non se ne preoccupa: non ha fretta, non più almeno. Sintonizza la radio sul consueto canale di musica rock e sprofonda nel sedile, finalmente rilassata dopo una giornata noiosa ancora prima che stancante. I consigli di amministrazione non fanno per lei, ma la varietà di attività lucrose che si trova a gestire dopo la malattia del padre val bene la pena di sottoporsi a quello strazio. La StuardFin, cassaforte della famiglia Stuard di Montevico, raccoglie un po' di tutto: immobiliari, assicurazioni, aziende vinicole, catene di negozi, persino un vetusto cinema d'essai proprio dietro piazza Maggiore, a Bologna. Attività che fruttano pozzi di soldi, buona parte dei quali finiscono nelle tasche, o meglio, nella borsetta griffata di Serena, che non si tira certo indietro quando si tratta di far pesare ruolo e importanza del denaro.

Il giorno dopo sarà una di quelle occasioni, uno di quei casi in cui il nome dei Montevico e la strabordante fortuna che rappresenta fanno la differenza. Un impegno da poco, qualche firma da mettere e niente più, ma che l’ha infastidita dal primo istante e continua ad agitarla ogni volta che ci pensa. Ha dato la sua parola, pentendosene un istante dopo, e da quel momento è stato tutto un rimuginare in cerca di un'alternativa praticabile. Anche adesso si interroga, chiedendosi se sia stata la scelta giusta, o, al contrario, una cura peggiore della malattia. Non ha una risposta, non una che la soddisfi, almeno. Così lascia perdere, mentre le luci colorate del casello si fanno vicine. Scala la marcia, corregge appena la direzione e imbocca la corsia preferenziale, sfilando a fianco dei veicoli in coda. La sbarra si apre, obbediente. Serena lancia un'occhiata nello specchietto retrovisore e affonda l'acceleratore, godendosi lo scatto dell'auto che la schiaccia contro il sedile.


Ore 19:55

L'autobus è vecchio e malridotto, uno dei tanti esemplari da rottamare che ragioni di bilancio dirottano sulle linee sfigate della periferia. I freni stridono quando inchioda davanti alla fermata, una pensilina di vetro e metallo cosparsa di graffiti, sistemata in mezzo al nulla a un centinaio di metri dai palazzoni del Pilastro. Daniela è l'unica a scendere: si tira sulla testa il cappuccio del parka a ripararsi dall'umidità della sera e si incammina a passo svelto lungo la via deserta, male illuminata dalla luce giallognola dei lampioni che diluisce in goccioline sospese.

Quando è uscita, la mattina presto, il paesaggio era pressoché identico, una landa grigia immersa nel silenzio inquietante che precede l'esodo verso le scuole, gli uffici, i negozi o gli angoli di Bologna che ospitano attività meno raccomandabili. Un rapido calcolo mentale porta al solito, scontato risultato: quasi quattordici ore da quando ha compiuto il cammino in senso inverso, quattordici ore di tragitti scomodi, attese snervanti e lavoro duro, monotono e malpagato, mille euro scarsi al mese per sgobbare in un capannone freddo e puzzolente che si confonde con cento altri uguali, in quella striscia di terra che non è più città e non ancora campagna.

È stanca, Daniela. Quella vita sta fiaccando il suo fisico asciutto, ma ancor più va frustrando i suoi sogni di trentenne delusa e disillusa. Non ha mai avuto pretese, Daniela: un lavoro, una casa dignitosa, un uomo con cui condividere la vita quotidiana, un figlio, chissà. Nulla di straordinario, insomma, se non le aspettative concrete di una donna senza grilli per la testa. E le mancherebbe poco a realizzarli, quei sogni: lavorare lavora, e un posto dove stare ce l'ha, anche se non proprio come lo vorrebbe. Ha anche un uomo, Daniela, Roberto Ferrari detto Il biondo – chissà poi perché, visto che ha i capelli neri come il tizzo – di cui è innamorata da sempre e che in fondo, a modo suo magari, le vuole bene. Peccato solo che tra Roberto e il lavoro non corra buon sangue e che i periodici tentativi di avviarlo a un mestiere diverso dalla nullafacenza svaniscano in fretta nell'eterna attesa di quella che lui chiama “l'occasione buona”. Che poi non è neppure chiaro cosa sia quest'occasione buona, né per quali misteriosi motivi dovrebbe capitare proprio a lui che, a ben vedere, non è che faccia molto per andarsela a cercare. Non è uno stinco di santo, Roberto, e Daniela sa bene che è meglio non domandare da dove arrivino i soldi che, di rado sia chiaro, porta a casa. Ha qualche precedente, Roberto: un furtarello quando era minorenne, una rissa con un gruppo di tifosi, una truffa di poco conto ai danni del credulone di turno che pensava di acquistare per pochi spiccioli uno smartphone ultimo modello. Non è un delinquente di calibro, Roberto: la droga gli fa schifo e la paura di finire dentro lo tiene lontano anche dalle altre attività più redditizie. Non è tipo da furti, né da estorsioni, insomma, piuttosto un fannullone con qualche scappatella nel penale, un lavativo che alla fatica del lavoro preferisce il vivacchiare alle spalle di Daniela, o rimediare qualche soldo giocando a biliardo, l’unico campo in cui ha davvero talento.

Quando spalanca la porta del bilocale al seminterrato Daniela lo trova stravaccato sul divano a guardare un'insulsa trasmissione tv, con indosso una maglietta bianca e un paio di calzoncini estivi. La casa calda è l'aspetto positivo del vivere accanto al vano caldaia, quello negativo sono i rumori e le vibrazioni che accompagnano ogni accensione e che danno l'impressione che il palazzo stia per crollare da un momento all'altro. Ci si abitua a tutto, però, e nella contabilità dei pro e dei contro il riscaldamento pressoché gratuito compensa ampiamente tutto il resto.

Roberto si alza e si avvicina, proprio mentre Daniela sta appendendo la giacca a uno dei ganci piantati nel muro che fungono da attaccapanni. Si danno un bacio e rimangono a guardarsi per qualche istante, in silenzio, prima che Daniela si stacchi. «Vado a fare una doccia: metti su l'acqua e apparecchia la tavola, intanto» sussurra, posandogli un dito sulle labbra.

Dieci minuti dopo è di ritorno, una tuta leggera indosso, i piedi nudi e i capelli castani fermati sulla testa con una pinza colorata. Roberto è di nuovo sul divano, tutto preso dal suo stupido programma che sparge attorno risate e applausi fasulli. Daniela si mette ai fornelli e neppure lo sente arrivarle alle spalle, cingerle la vita, baciarla sul collo.

«Robi, per favore… ceniamo prima, dai» lo supplica.

Una mano scivola sotto la maglia, accarezzandole il ventre.

«Sto da stamattina con un panino, se non mangio svengo…»

La mano sale e le dita arrivano ad accarezzare i seni, sfiorano i capezzoli.

Daniela lascia cadere il coltello.


Ore 20:25

È stata una giornata di merda. Il nodo stradale di Bologna, già complicato, diventa un intrico inscindibile con l'avvicinarsi del Natale e raggiunge il culmine quando alla normale confusione va ad aggiungersi qualche evento inaspettato, e così era andata quel giorno. Prima un incidente, proprio dove autostrada e tangenziale si stringono in un abbraccio fatale, tre mezzi pesanti che si erano incastrati fra loro, senza vittime per fortuna, ma che aveva paralizzato il traffico per quasi quattro ore. Poi un incendio a bordo strada, stoppie e sterpaglie che avevano preso fuoco chissà come in quella stagione, con il fumo che aveva annullato a lungo la visibilità poco oltre il casello di San Lazzaro.

Quando Laura mette il naso fuori dal centro operativo le otto sono passate da un pezzo e la stanchezza le stringe le tempie in una morsa dolorosa. Ha fatto tardi come spesso le accade, troppo spesso per impedire al rimorso di salire dallo stomaco e invaderle il cuore. Quando arriverà a casa Alice sarà già a dormire dopo aver ingoiato l'ennesima delusione, e Andrea la guarderà con quell'espressione che ben conosce, a metà strada fra il fastidio e la comprensione, capace di ferirla come neanche il commento più acido. Siede alla guida e, prima di avviare il motore, si massaggia le reni e lancia un'occhiata timorosa verso lo specchietto, che le rimanda due occhi spenti, segnati dalla stanchezza.

La viuzza che corre alle spalle del centro operativo taglia i campi bui, allontanandola in fretta dal traffico ancora sostenuto dell'autostrada. Anche col suo vecchio catorcio a quell'ora dieci minuti bastano per arrivare a casa, dieci minuti fatti di scrupoli antichi, che il tempo non soltanto non allevia, ma rischia di trasformare in rimorsi ingestibili. Il matrimonio con Francesco non poteva durare, non dopo quanto successo in quel passato incerto, remoto e prossimo a un tempo, abbastanza lontano da sfiorare l’oblio e tanto vicino da recare ancora il bruciore delle ferite. E poi c'è la storia con Andrea, importante e improvvisa, che l'ha sorpresa, stupita, lasciandola con la sensazione fastidiosa di non conoscere sé stessa, o almeno di averne ignorato, cosciente o meno, una parte importante. Lo scrupolo vero, però, ha le sembianze delicate e innocenti di Alice, un cruccio profondo, che si materializza nella lunga teoria di promesse mai mantenute, di giuramenti disillusi, di attimi da trascorrere assieme fagocitati dall'ingombrante presenza del lavoro.

Accosta al marciapiede sotto casa, in quell'angolo anonimo di Bologna che si confonde con la pianura, e solleva lo sguardo. La finestra della cucina è illuminata e le ombre sfumate di Andrea fluttuano pallide sullo spicchio di parete che intravede. Il chiarore che filtra dalle persiane della camera lascia intendere che Alice già dorme, di certo abbracciata a Winnie the Pooh, il pupazzo più grande di lei che non abbandona un momento. I nervi le cedono. Con violenza picchia il palmo della mano sul volante, imprecando. L'ennesima promessa mancata le rimbomba in testa – mamma domani viene a casa presto e ti porta… neppure ricordo dove dovevo portarla, Cristo! – materializza la delusione di Alice e il silenzioso rimprovero di Andrea.

Sì, è stata proprio una giornata di merda.