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Collana Nero Inchiostro

SCIMMIE

di Emiliano Bottacco


1. La prima fu vista ai giardini della stazione, vicino al laghetto dei cigni.

In realtà non la videro tutti, ma solo alcuni. E quei pochi diedero versioni discordanti.

La seconda volta ne furono viste tre, sempre nei giardini. Questa volta le videro quasi tutti. Erano grandi come esseri umani adulti. Alcuni dissero che sembravano babbuini, con ghigni maligni e beffardi che mettevano in mostra i canini affilati. Altri dissero che erano scimpanzé. Molti non seppero nemmeno indicarne la specie. Tutti erano d’accordo nel dire che erano ricoperte di fango, come se si fossero rotolate in una pozzanghera. Non infastidivano i passanti, anzi si tenevano a distanza, ma erano inquietanti. Era impossibile prenderle o anche solo avvicinarle.

Era anche arrivata una squadra della protezione animali, chiamata per l’occasione da Torino, metti che fossero povere bestie scappate da un circo o da uno zoo. Quando gli uomini della squadra erano arrivati, ai giardini non c'era più traccia delle scimmie, nemmeno mezza impronta. Se n'erano andati borbottando insulti contro lo spiritoso che aveva pensato bene di fare uno scherzo. Le scimmie erano sbucate fuori poche ore dopo. Saltellavano intorno ai giochi per bambini lanciando urla acute, divertite per la beffa. Ed erano diventate quattro.

Da quel giorno iniziò a serpeggiare una crescente inquietudine tra i pacifici cittadini di Alessandria. Nessuno metteva più in dubbio l'esistenza delle scimmie, nemmeno quei pochi che non le avevano ancora viste. Non aveva importanza che non ci fossero due sole testimonianze uguali sul loro aspetto. Le scimmie c'erano e su questo erano tutti erano d'accordo. E ogni tanto ne saltava fuori una nuova, che si univa alle precedenti in danze condite da grida selvagge. Ad un certo punto fu quasi impossibile dire quante fossero, perché se ne stavano acquattate tra i cespugli o arrampicate tra le fronde degli alberi.

Si sapeva solo che erano tante. Più di quante fosse ragionevole immaginare, anche ammettendo che si riproducessero alla velocità della luce. La notte, tra gli alberi e i cespugli, risuonavano grugniti e versi striduli, più simili a risate malevole che ad urla di animali. Di giorno, sbirciando da piazza Garibaldi o da Corso Crimea, potevi intravedere nella nebbia le sagome scure delle scimmie, che scorrazzavano a quattro zampe tra le aiuole.

Quando il cigno del laghetto fu trovato morto, il corpo che galleggiava nell’acqua stagnante tinta di sangue, nessuno ebbe dubbi su chi fossero i responsabili.

Era il sei novembre e le scimmie erano state viste per la prima volta dieci giorni prima. Nel mentre, i giardini si erano spopolati. Anche gli spacciatori li evitavano. I chioschi di bibite e panini avevano chiuso i battenti, le badanti dell'est avevano smesso di ritrovarsi sulle panchine di viale della Repubblica durante il loro giorno libero. I pensionati avevano optato per mete più tranquille in cui passare i pomeriggi, in attesa della cena e dei quiz sul Canale Uno.

I giardini erano diventati una grande cicatrice nel corpo della città, co­me un buco nella strada da cui tutti si tenevano alla maggior distanza possibile, quasi che il buco potesse risucchiarti se gli passavi troppo vicino.

L'unico che continuava ad andarci era Zorro.



2. Avevo conosciuto Zorro l'estate prima, durante un afoso pomeriggio di fine agosto. Mi trovavo all'Outlet per un servizio sui saldi di fine estate. Ero lì da quattro ore per intervistare le persone intente a fare acquisti e i negozianti che commentavano l'andamento delle vendite. Quattro ore a girare per una riproduzione di città in miniatura, con le sue casette dalle finte facciate in stile pseudo-ligure. Ero sudato, stanco e assetato. Avevo messo insieme il materiale per il servizio e non vedevo l'ora di tornare in redazione per montarlo e caricarlo sul sito web del giornale, almeno lì avrei avuto l'aria condizionata. Prima di andare al parcheggio mi ero fermato in un bar affacciato sulla piazza principale. Mi ero preso una bottiglietta d'acqua, con la ferma intenzione di rilassarmi per qualche minuto all'ombra.

Fu in quel momento che vidi Zorro. Se ne stava al centro della piazza, come se il caldo e il sole non esistessero. E sì che era vestito di tutto punto: cappello a tesa larga con una grossa Z argentata, camicia, pantaloni e mantello. Tutti neri. In pieno sole e con il termometro che segnava trenta gradi. Mi ero avvicinato per guardare meglio quel pazzo. Non appena avevo messo piede fuori dall'ombra ero stato assalito da un giramento di testa. Quell'uomo doveva avere un impianto di aria condizionata nascosto sotto il mantello.

Quando gli ero arrivato vicino, avevo visto che armeggiava dietro la schiena. Sotto il mantello aveva uno zainetto che gli scendeva fin quasi sulle natiche. Ne tirò fuori una pompetta e alcuni palloncini, che iniziò a gonfiare per poi sagomarli a forma di spada.

Osservandolo da vicino considerai che non doveva avere più di quarant’anni, il volto abbronzato con gli occhi coperti da una mascherina nera e due baffoni spioventi che gli ricadevano ai lati della bocca. Appesa alla cintura portava una spada inguainata in un fodero. Un vero Zorro in piena regola.

«Se mi vuoi filmare devi darmi dieci Euro» mi aveva detto, indicando la minicamera che tenevo a tracolla.

«No. Volevo solo dare un’occhiata».

«Cos’è, non sono un soggetto abbastanza interessante? Ti ho visto intervistare la gente che faceva compere. Mi trovi troppo pittoresco per il tuo servizio da Pulitzer?»

«No, è che ho finito e sto per andare via».

«Meglio così, tanto in video vengo male. Sono più bello dal vivo».

«È vera quella spada?» gli avevo chiesto, così tanto per attaccare discorso.

«Come no» mi aveva risposto, senza smettere di gonfiare palloncini. «La uso per incidere una Z sulla fronte dei miei nemici e per bucare i palloncini ai bambini cattivi».

Lo ammetto, era una domanda cretina. Ma dopo un pomeriggio sotto il sole a picco non ero in grado di sostenere conversazioni brillanti.

«Scusa se te lo chiedo, ma non hai caldo?» anche questa non scherzava e in più era anche banale.

«Ho il cappello che mi fa ombra. E sotto ho anche una bandana che mi trattiene il sudore, vedi?» aveva risposto, sollevando appena la tesa del cappello.

«Sì, ma tutto vestito di nero, così…»

«Il caldo è uno stato mentale. Non ci devi pensare troppo, come per tutte le cose della vita. Altrimenti un bel giorno ti svegli e, senza che nemmeno te ne sei accorto, il caldo sei diventato tu».

Era un completo sciroccato, ma c’era qualcosa nelle sue parole che mi sembrava quasi sensato. Forse era solo il caldo. Forse ero un po’ sciroccato anch’io.

«E perché ti vesti da Zorro?» avevo rilanciato.

«Il costume da Uomo Ragno mi andava stretto. Per non parlare della maschera. Quella sì che tiene caldo, ti copre tutta la faccia. Avrei dovuto tagliarmi i baffi, se no sai quanto sudavo? L’unica alternativa era Capitan America, ma mi è sempre stato sulle palle. Sai, pendo un po’ a sinistra. Educazione di famiglia. Quando da piccolo guardavo i film western insieme a mio nonno, facevamo sempre il tifo per gli Indiani».

«Non dirlo a me. Ho sempre esultato quando i Sioux di Toro Seduto facevano il mazzo al Generale Custer e al Settimo Cavalleggeri».

«Custer ha avuto quello che si meritava, te lo dico io. Era un incompetente pallone gonfiato».

«Devo ammettere che sei un tipo curioso. Quasi quasi ti inserisco nel servizio, ma non ti do più di cinque Euro».

«E sia, l’ingresso nel mondo dello spettacolo è fatto di sacrifici».

Un bambino di sei-sette anni si era avvicinato porgendo una monetina da un Euro, tutta sudata e appiccicaticcia.

«Dalla a lui,» aveva detto Zorro indicandomi, «è il mio agente».

Il bambino aveva ubbidito, mentre Zorro gli rifilava un’imitazione di spada dall’imbarazzante forma fallica.

«Cos’è questa merda?» aveva chiesto il bambino rivolgendosi a Zorro.

«È la spada di Zorro».

«Non sembra una spada. Fa schifo!»

«Ascolta sgorbio, se non ti piace puoi sempre darla a tua madre. Forza sparisci. E tu agente, ridagli la monetina, se no il suo papi mi fa causa».

Il bambino mi aveva strappato di mano la moneta ed era corso via strillando. Ad un certo punto aveva gettato via il palloncino e si era girato per mostrarci il dito medio, esibendo un ghigno strafottente.

«Certo che ci sai proprio fare con i bambini» avevo commentato.

«Faccio schifo. Avrei dovuto portarmi il sax. Con quello sì che me la cavo, ma è troppo ingombrante se devo scappare».

«Scappare da chi?»

«Dal sergente Garcia» aveva risposto, riponendo in fretta palloncini e pompetta nello zaino.

In fondo alla piazza una guardia giurata si stava dirigendo a passi rapidi verso di noi.

«È stato un piacere» aveva detto Zorro congedandosi. «Al prossimo giro mi devi un’intervista» ed era corso via con il mantello che svolazzava alle sue spalle.

Per un attimo me lo immaginai che scappava saltando sui tetti delle casette. Avevo decisamente visto troppi film e il caldo mi stava dando alla testa.

Quando la guardia mi avvicinò, Zorro era ormai sparito.

«Quel tizio non è autorizzato a stare qui. Ho visto che gli parlava insieme. Sa come si chiama?»

Avevo squadrato la guardia. Anche lui vestito di scuro dalla testa ai piedi, con tanto di chepì e anfibi dalla punta rinforzata.

«Diego De La Vega» avevo risposto, e me n’ero andato lasciandolo lì come un cretino.



3. Era stato un aprile piovoso. Poi, verso la fine del mese, le nuvole se ne erano andate e la primavera aveva fatto il suo ingresso trionfale.

Nel frattempo le scimmie scorrazzavano per i giardini come se fossero sempre stati casa loro. L’erba, che nessuno osava più tagliare, cresceva sempre più alta, rendendo il posto simile ad una piccola savana.

Come tutti, anch’io evitavo i giardini, anche se un’inspiegabile curiosità mi spingeva a non starne troppo lontano. Un pomeriggio di inizio maggio osai addirittura costeggiare il lato che si affacciava su Piazza Garibaldi.

Avevo passato la mattina in tribunale per seguire la seconda udienza di un processo molto controverso. Dovevo mettere insieme il materiale e scrivere un articolo entro la sera. Mentre percorrevo la piazza per andare in redazione ero stato attirato da una musica in lontananza. Ero stanco e mi bastava una minima distrazione per farmi rallentare il passo. Quando sentii la musica provenire dai giardini mi arrestai di colpo. Chi diavolo era che aveva voglia di suonare in quel posto? La cosa mi incuriosiva e decisi di andare a vedere. Magari avrei potuto ricavarne materiale per un buon articolo.

Mentre mi avvicinavo al viale che tagliava in due i giardini, iniziai a distinguere meglio la musica. Era un pezzo famoso, ma non riuscivo a ricordare il titolo. Proveniva dal fondo del viale. Per scoprire chi o cosa stava suonando avrei dovuto addentrarmi nei giardini. Iniziai a chiedermi se ne valesse la pena. Avevo visto le scimmie una volta sola, due mesi prima, e mi ero sentito pervadere da un'inquietudine mai provata. Me lo ricordavo come se fosse appena successo.

Mi trovavo in un bar vicino al tribunale. Avevo appena finito di seguire la prima udienza del processo e avevo deciso di prendere un caffè prima di tornare in redazione. Stavo per ordinare anche una brioche, quando lo sguardo mi era caduto oltre la vetrina del bar e le avevo viste. Due esemplari adulti che mi fissavano, seduti su una panchina, dall'altro lato della strada, lungo il perimetro esterno dei giardini. Non avevano ringhiato né urlato. Mi avevano solo guardato. Uno sguardo intenso, maligno, pervaso da un'intelligenza più che umana.

Sembrava che fossero lì apposta per me, ad aspettare che mi voltassi nella loro direzione. Un brivido mi percorse la schiena, le gambe mi divennero molli, ma allo stesso tempo era come se si fossero bloccate. Per alcuni istanti, che sembrarono durare un'eternità, non riuscii a distogliere lo sguardo né a muovere un solo passo. Poi un cliente mi urtò mentre andava al bancone e mi ripresi. «Svegliati» mi disse in malo modo.

«Scusi, erano le scimmie» biascicai imbarazzato.

Il tizio borbottò un insulto a mezza voce, ma non replicò. In quei giorni nominare le scimmie aveva il potere di troncare ogni discussione. Quando mi voltai le scimmie non c’erano più. Non so cosa sarebbe successo se il tizio non mi avesse urtato. Forse avrei continuato a guardarle per ore, forse avrei attraversato la strada per raggiungerle, la tazzina di caffè in una mano e lo sguardo inebetito, incurante delle auto. E poi? Meglio non saperlo. Avevo pagato il caffè e me ne ero andato di fretta. Al diavolo la brioche. Mi era passata la fame.

[...]