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Collana  Verde Mela

Capitolo 1


Per quale motivo si era spinta così in alto? Il sentiero divenne improvvisamente stretto e molto ripido. Olimpia si fermò per riprendere fiato. Gli arbusti dei rovi le parvero cresciuti a dismisura e i tronchi dei pini enormi. Anche il cielo era lentamente cambiato passando dal celeste all’azzurro, all’indaco e al blu con lievi sfumature grigiastre. Tutto le parve ostile. Perché era salita lassù?Un rumore di sterpaglia spezzata interruppe i suoi pensieri. Si fermò ad ascoltare. Silenzio. Quasi certamente una marmotta stava raggiungendo la propria tana disturbata dalla sua inopportuna presenza. D’istinto guardò l’orologio. Le sette? Com’era possibile? Camminare con la testa fra le nuvole non è mai una buona cosa. Essere presente a se stessa, ecco cosa doveva fare invece: praticare la presenza per accettare i fatti e saperli vivere nel momento stesso in cui accadono”, come le ricordava la sua insegnante. Eppure le sembrava d’aver capito tutto al termine del corso di mindfulness. Ora doveva scendere dalla montagna e uscire dal bosco. Si voltò e iniziò a percorre il sentiero a ritroso accelerando un po’ il passo. Era una buona camminatrice, era allenata, e pensò che sarebbe giunta a valle prima del buio. Inaspettatamente, si trovò di fronte a un piccolo bivio senza alcuna indicazione. Le segnalazioni erano state divelte da detriti di terra staccatisi in seguito a un forte temporale. Entrambi i sentieri scendevano apparentemente a valle, ma lei non conosceva quella montagna. Essendo salita distratta dai suoi pensieri, non ricordava da dove fosse arrivata. Si fidò del suo istinto e scelse quello di sinistra augurandosi fosse la direzione giusta. Intanto il cielo si stava scurendo piuttosto minacciosamente caricandosi di nuvole nere che promettevano pioggia. Per quale motivo si era spinta così in alto? Mentre uno strano peso sulle spalle le rallentava il passo e un groppo alla gola le impediva di respirare, il cuore accelerò bruscamente. Provò a emettere un suono ma non le riuscì. Era bloccata.Ebbe la sgradevole sensazione che ci avrebbe messo parecchio tempo ad arrivare a casa. Il colpo secco di un tuono la costrinse a muoversi. Doveva scendere velocemente. Era uscita dalla baita sbattendo la porta, senza cellulare, senza documenti, senza la minima idea di dove sarebbe andata, con l’unico desiderio di restare sola il più a lungo possibile, il più lontano possibile. Aveva iniziato a camminare con rabbia. Il passo svelto, prepotente, l’aveva portata più su di quello che avrebbe immaginato senza pensare al sentiero, al bosco, alla montagna. Aveva solo di fronte a lei la sua vita fatta a pezzi. Ricordò quando da bambina sua madre le metteva un cestino tra le mani dicendole: «Vai sulla montagna e cerca un po’ di funghi buoni per il sugo».Lei partiva veloce sentendosi padrona dei boschi. Ogni tanto si fermava a raccogliere more divorandole con avidità, oppure staccava piccoli e teneri arbusti di genziana con cui intrecciava ghirlande che si calcava in testa come una principessa indossa la corona. Chiuse gli occhi e riuscì a sentire il profumo del sugo, nella bocca il suo gusto intenso e quel ricordo la confortò. Come le mancava quella gioia infantile! Una goccia d’acqua la colpì in piena fronte e subito la felicità svanì. In un attimo si ritrovò fradicia di pioggia e di dolore. Non sapendo dove ripararsi corse verso un piccolo capanno che le sembrò adatto per aspettare che spiovesse.Già, ma quando sarebbe successo? Il temporale, annunciatosi prima, ora si stava scatenando con violenza accompagnato da raffiche di vento che sbattevano prepotentemente le fronde degli alberi come per far capire loro che non si sarebbe chetato tanto presto. Giunta alla porta d'ingresso, chiusa da un semplice chiavistello arrugginito, l'aprì senza difficoltà ed entrò.Il freddo la spinse a rannicchiarsi un po’ più sotto quel tetto di fortuna, ma non poteva restare ancora lì. In quelmomento, però, l’idea di non tornare e far preoccupare Andrea le solleticò la mente. In fondo, se lo sarebbe meritato. Probabilmente avrebbe chiesto aiuto alle Guardie Forestali, si sarebbero messe in moto le ricerche e così via, troppo complicato. Scartò l’opzione persona scomparsa e decise di scendere a valle: temporale o no, sarebbe tornata alla baita. Per questa volta avrebbe risparmiato a quello stronzo un po’ di ansia, ma non lo aveva fatto per lui. Olimpia non amava le situazioni tragiche, la gente addosso, gli sguardi, le supposizioni, le domande. In quel momento, poi, nessun estraneo aveva il permesso di entrare nella sua vita, di frugare nel suo dolore. Forse neanche Andrea ne aveva più il diritto.Stava per uscire quando notò, osservando con più attenzione, che il rifugio proseguiva in un cunicolo piuttosto lungo e alto. Incuriosita, cercò di addentrarsi in quel tunnel semibuio scavato con cura nel crinale della montagna. In un angolo a destra, su un piccolo tavolo di tronchi di pino, erano appoggiati due piatti di ceramica bianca con piccoli disegni floreali di colore blu, due bicchieri di latta, una borraccia, anch’essa di latta. Vecchie posate erano tenute insieme da uno spago consunto, una scatola di biscotti arrugginita accoglieva una pagnotta di pane nero rinsecchito e mangiucchiato. A sinistra era stata ricavata una specie di panca che doveva evidentemente servire da giaciglio; sopra, un vecchio plaid scozzese fungeva da misera coperta. Era forse il ricovero di qualche pastore in cerca, come lei, di un riparo dalla pioggia?Il tempo non le permetteva di restare, avrebbe proseguito con le proprie congetture scendendo a valle e poi nella baita, al caldo. Il pensiero del calore l’avvolse completamente facendole dimenticare che ad aspettarla avrebbe trovato Andrea.E se fosse andato via, se fosse partito? No, non era possibile. Il senso di colpa lo avrebbe certamente inchiodato a quel divano su cui sedeva quando era uscita sbattendo la porta. Era certa di ritrovarlo ancora lì, mentre si chiedeva come potesse accadere che dopo essersi incontrati, amati, sposati in un impeto di tenerezza, si ritrovassero all’improvviso quasi sconosciuti l’uno all’altro, come se non avessero dormito fianco a fianco.Prima di andarsene decise di lasciare un segno per ritrovare il nascondiglio. Era assolutamente intenzionata a tornare. Estrasse dalla tasca dei pantaloni un piccolo fazzoletto azzurro umido di pioggia, in un angolo vi era ricamata una deliziosa stella alpina. Era un ricordo della nonna Elide, faceva parte del suo corredo da ragazza. Glielo aveva dato un giorno in cui si era sbucciata un ginocchio. «Cara Olimpia, anche la stella alpina è un dono prezioso della natura e va protetto come tutte le cose importanti della vita. Ricordalo».E lei aveva annuito seriamente. Ogni mattina prima di accompagnarla a scuola la nonna le chiedeva: «Hai il fazzoletto?» Era solo un fazzoletto, ma il semplice gesto di averglielo donato la faceva sentire protetta. Un simbolo del suo amore da tenere con sé, da toccare, usare; un modo per ricordare l’affetto dei propri cari anche quando questi non ci fossero più stati. Lo strinse ancora tra le mani e prima di legarlo a un tronco riparato provò una dolorosa solitudine e un vago senso di dispiacere nel privarsene. Ripensò a nonna Elide e si convinse che lei avrebbe capito, proteggendo il regalo prezioso in qualunque luogo si fosse trovata in quel momento. E avrebbe protetto anche lei durante il cammino di ritorno. Era certa che, tornando lì, lo avrebbe ritrovato.