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Collana Nero Inchiostro

1.

A fare le solite cose, tutti i giorni, finiva sempre per pensare alle solite cose. Anche quella sera. E questo perché non poteva prevedere ciò che gli sarebbe presto accaduto, se no avrebbe pensato ad altro invece che alle solite cose.

Pertanto, come tutte le sere, tornando dal lavoro, pensò alla lombalgia che lo affliggeva.

Lombalgia da guidatore.

Prima o poi avrebbe dovuto vendere la BMW per sostituirla con un SUV. Aveva letto che i SUV erano ritenuti più adatti per la salute della colonna vertebrale. Ecco il motivo di tanta diffusione di quelle scatole giganti: tutti a combattere contro la lombalgia! Ma non era ancora convinto, c’era poco da fare, amava troppo la BMW berlina, ogni duecentocinquantamila chilometri la cambiava per prenderne un’altra dello stesso modello o di quello più recente. Sempre di colore nero.

Quanto ci metteva a fare tutti quei chilometri?

Due anni.

L’automobile era la sua casa, anche perché da un po’ di tempo la sua casa non era più la sua casa.

Parcheggiò lungo la strada, più o meno al solito posto. Il quartiere in cui viveva, Ferro di Cavallo, era un luogo come tanti altri, dove se non ci abitavi non ti sarebbe venuto in mente di capitarci. Uno sviluppo di case in linea, tutte pressoché uguali, abbarbicate su una fascia collinare, destinate a dormitorio di un pezzetto di popolazione perugina. La mattina tutti fuori al lavoro – per chi ancora aveva uno straccio di lavoro – la sera tutti dentro provati dalla quotidianità.

Avrebbe voluto parcheggiare nel garage progettato per contenere l’automobile, ma il garage era diventato la sua casa.

Gli sembrava più casa la BMW o il garage in cui dormiva?

Domanda retorica. Oramai la sua mente si era trasformata in un ricettacolo di domande retoriche. Tipo: ma perché quella troia non va a vivere con Yul Brynner?

In prossimità dell’ingresso condominiale riassunse a fatica una posizione eretta, ma solo per modo di dire. Mancavano ancora dei gradi, la colonna vertebrale non ne voleva sapere di raddrizzarsi come avrebbe dovuto.

In realtà, tendeva a ingigantire i suoi problemi di salute – al di là di una modesta artrosi diagnosticata con una risonanza magnetica, non aveva altro, nemmeno una minuscola ernia – ma non faceva che lamentarsi del mal di schiena, come se sulla schiena si concentrassero tutti i suoi dolori esistenziali. Per il bene della schiena non doveva neppure salire delle scale, e tuttavia la possibilità di prendere l’ascensore fino all’appartamento al quinto piano non apparteneva al novero delle ipotesi realistiche.

L’ascensore era reale – bastava dirigersi verso i corpi scala per incontrare il vano ascensori a disposizione degli utenti – però il fatto che lui potesse salire fino al quinto piano non faceva parte delle cose che potevano accadere. Non era nell’ordine delle possibilità in condizioni normali – e questo non dipendeva dal più o meno presunto mal di schiena. Semmai dal male di vivere?

Con un passo da soldatino anchilosato si avviò verso la zona garage, attraverso gli anfratti distributivi del piano terra giunse all’ingresso interno del suo pied-à-terre.

Due muratori rumeni pagati in nero, in sei giorni di lavoro folle – non contemplato dalle più elementari norme sindacali – avevano cambiato i connotati al garage. Che muratori eccezionali, i rumeni! Sulla base di un progetto concepito da un amico architetto sfigato, che come compenso aveva ricevuto sei bottiglie di Barolo, avevano trasformato il piano terra in un piano terra.

Insomma, grazie alla sbrigativa ma precisa arte muraria dei valacchi alla fine si era ritrovato un monolocale dotato di ogni comfort. Un bagno all’ultimo grido, così ben rifinito e attrezzato da sembrare almeno il doppio rispetto ai tre metri quadrati scarsi. Un signor bagno, un bagno da rivista, aveva cianciato l’architetto sfigato, dandosi delle arie. Forse costui aveva l’abitudine di assumere buone dosi di Tavernello – il Barolo non se lo poteva permettere.

Aprì la porta e ancor prima di accendere la luce, il cellulare cominciò a suonare.

Era lei!

Indugiò prima di rispondere, ogni volta che lo cercava, c’era qualche grana in vista.

«Sì?»

«Visto che sei arrivato, puoi venire su?»

«Che c’è?»

«Vieni su e te lo dico».

«Come la cavallina storna…»

«Cosa?»

«Mi stavi aspettando dalla finestra come nella poesia… lascia stare, salgo».

Controvoglia prese l’ascensore diretto all’appartamento di sua proprietà. Solo in condizioni non normali poteva permettersi il lusso di mettere piede a casa sua senza essere accusato di violazione di domicilio, infatti trovò addirittura la porta spalancata – doveva essere successo qualcosa di spaventosamente non normale.

Cecilia lo stava aspettando con un radioso sorriso che le assottigliava il taglio degli occhi. Fu colto da un improvviso e inatteso moto di tristezza. Quel sorriso una volta la rendeva irresistibile, ora finiva per accentuare l’evidente sovrappeso. Negli ultimi tempi stava ingrassando a vista d’occhio, Yul Brynner doveva essere un ottimo cuoco.

«Sapessi che cosa è successo oggi in questa casa, un finimondo» gli disse.

«Un finimondo? E me lo dici sorridendo?»

«Sorrido perché il film è finito bene».

«Oddio, Cecilia, che cosa mi stai per raccontare?» le domandò stremato. «Ho avuto una giornata molto pesante».

«Se non ci fossi stata io, a quest’ora la casa sarebbe andata distrutta, tesoro mio!» Divenne di colpo seria e aggressiva.

Infagottata in una vestaglia color crema lunga fino alle caviglie, in prossimità delle quali spuntavano due ciabatte gialle infeltrite, sembrava una papera starnazzante sul punto di essere acchiappata dal macellaio.

Chinò il capo, sconfitto e vinto.

La cosa più sbagliata della sua vita? Il matrimonio.

La cosa più azzeccata della sua vita? La separazione.

Ma non un’operazione a costo zero; purtroppo la cosa sbagliata aveva generato un’entropia irreversibile, pertanto la cosa giusta non avrebbe mai potuto annullare gli effetti indotti dalla cosa sbagliata.

«Senza il mio intervento immediato, tesoro, l’appartamento si sarebbe allagato».

«Davvero?»

«Non mi credi? Questa mattina in bagno si è rotto un flessibile del lavandino, un lago!» disse, allargando platealmente le braccia.

«Ah!»

«Non dici altro?»

«E ora?» domandò con apprensione.

«Appena sentito il rumore dell’acqua, impressionante, uno scroscio che non ti dico, pareva di avere una cascata in casa, sono corsa al bagno, ho chiuso il rubinetto generale e poi…»

«E poi hai chiamato l’idraulico».

«Sbagliato, tesoro, prima mi sono fatta un culo così per raccogliere l’acqua, un macello».

«Un culo così?» La guardò: in effetti aveva messo su un rispettabile didietro.

«Che cosa c’è da guardare?»

«Lascia perdere… fammi andare a vedere il lavoro di questo idraulico».

La superò di slancio ed entrò in bagno.

Era tutto in ordine, anche se diverso da come lo ricordava. Le tende erano diverse, il tappeto era diverso, perfino gli asciugamani erano diversi, pure il mobiletto era un altro rispetto a quello di un tempo.

«Il mobiletto che c’era prima che fine ha fatto?»

«Non mi piaceva, l’ho sistemato nel ripostiglio».

Erano due anni che non metteva piede nel cesso di casa sua.

«Mah!»

«Non sono neanche libera di cambiare un mobiletto?» Frignò.

«Sei libera di fare quello che vuoi» le disse ghignando, mentre osservava il rasoio da uomo corredato da un barattolo di schiuma da barba in bella vista sopra il mobiletto.

«Yul Brynner si rade anche la testa?»

«Che ti importa?» ribatté lei senza titubanza, premendo i pugni contro i fianchi. In quella posa assomigliava ancora di più a una papera, visto che le erano spuntate persino un paio di ali.

«Quella schiuma da barba mi irrita la pelle, si vede che il tuo Yul Brynner ha la scorza più dura».

«Che cosa vorresti insinuare?» gli domandò con uno spiffero questurino.

«Insinuare?»

«Sì, insinuare, in casa mia ci tengo tutte le schiume da barba di questo mondo!»

«In casa tua…» Sorrisetto maligno.

«Ancora?»

«Lasciamo stare».

«Eh, no, tesoro, lasciamo stare un cazzo!»

«Mostrami come ha risolto l’idraulico». Sospirò, giunto al limite della pazienza.

«Tu mi rovini la vita, non si può ragionare con uno che tiene una faccia così!»

«Perché, che faccia ho?»

«Una faccia da funerale… non mi vuoi più in questa casa che continui a considerare solo tua? Aiutami a pagare l’affitto da un’altra parte».

«Sì, sì…» Si sentì stanco, spossato, e non era una novità. Non ne poteva più di quei discorsi. Aprì un cassetto del mobiletto. Immaginare di prendere un topo morto per la coda sollevandolo con l’indice e il pollice: così fece con gli occhiali di Yul Brynner.

«E questi?» le domandò di nuovo con il sorrisetto maligno. «Ora hai problemi di vista?»

«Devo rendere conto a te della mia vita privata?»

No, non c’era motivo, anzi, sarebbe stato inopportuno, non doveva rendere conto a lui né della sua vita né della sua vista.

«Scommetto che se vado in camera e apro un armadio ci trovo una delle sue giacche sgargianti!»

Cecilia non raccolse la provocazione e venne al punto.

«Tra tutte le cose che hai notato del bagno, ti è sfuggito il particolare che volevo farti vedere».

Sopra la mensola della specchiera giaceva il flessibile rotto che l’idraulico aveva sostituito, glielo indicò.

«Ah, il flessibile, e allora?»

«Allora cosa?»

«Che cosa c’entro io con il flessibile?»

«È tuo il flessibile, lo devi pagare!» Riprese a starnazzare.

«Fattelo pagare da Yul Brynner» le disse senza tanta convinzione.

«Ah sì? Vuol dire che domani mattina ti faccio chiamare dall’avvocato».

«Quanto viene?» Era sparita anche la più piccola traccia di convinzione.

«Duecento euro».

«No!»

«Ringraziami, non gli ho preso la fattura, altrimenti ne avrebbe voluti trecento».

«Pure in nero!»

«Non dovevo pagarlo in nero?»

Due banconote da cento finirono in un baleno in un tascone della vestaglia.

Adesso che era stata risarcita del conto dell’idraulico, Cecilia la papera decise che era giunto il momento di rimanere sola nell’aia.

«Invece di dirmi grazie per tutto quello che faccio per la casa, mi tratti come una ladra» gli disse mentre lo accompagnava alla porta.

«Non mi prepari una bella cenetta?»

«Tanto tu non sai apprezzare il cibo!» gli rispose facendo finta di sorridere.

«Dico sul serio, ultimamente mi pare che ti stia ingozzando!»

Le diede una rapida occhiata e pensò di nuovo che la fine della loro storia fu una cosa stupenda che gli era capitata, al netto degli obblighi economici ai quali da allora doveva sottostare.

Lei cominciò a fargli cenno con la mano di andarsene.

«Stai ingrassando a vista d’occhio, se continui così non troverai nessuno disposto a farti lavorare, non sei credibile con questa linea».

«Che razza di maleducato che sei, vattene!»

«Me ne vado con piacere». Un sorriso nero di soddisfazione gli attraversò il volto.

Gli occhi di Cecilia ridotti a due pertugi lucidi.