Collana Nero Inchiostro
Londra, 1890. La notte dopo.
Druitt mandò giù l'ennesimo bicchiere di bourbon, quasi d'un sorso, e si riversò stordito a rallentatore sul bancone, coi reni anestetizzati da una quantità di alcool notevolmente inusuale.
Il barista lo osservò perplesso. Si domandava il perché di quei capelli arruffati, della cravatta slacciata, del gilet sbottonato e dei diversi segnali poco nobili per un cliente solitamente avvezzo ad altro stile. Aveva tutta l'aria di un condannato al rogo, arreso al proprio destino nefasto.
Lo smosse da un braccio. Druitt indietreggiò spaventato, quasi cadendo; dal fodero ascellare in cuoio, nascosto sotto la giacca, estrasse goffamente un piccolo pugnale a lama corta che brandì minaccioso, tagliando l'aria.
«Ehi! Calmati!» fece il barista.
Il musicista rinsavì. Abbassò l'arma, mimando col viso una sorta di dispiacere per il gesto. «Un altro!» disse.
«Sono chiuso! Striscia fuori e svuotati lo stomaco nel vicolo, figliolo».
A quelle parole, l'uomo rispose lanciando insolente un pugno di sterline come fossero dadi. Da comprare almeno sette bottiglie. «Un altro!» ripeté.
Il barista finse lo sforzo, schiantando nel vetro altro liquido alcolico.
«Cenere nella clessidra» bisbigliò il musicista, faticando come se stesse masticando lievito.
Il barista sogghignò, pregando che non vomitasse da un momento all'altro. D'improvviso, l'uomo si protese con uno scatto verso di lui, afferrandolo al petto per la camicia.
«Non voglio morire! Io... non voglio... mio Dio!» urlò, come in preda a isteria.
Il banconiere imprecò, liberandosi dalla presa. Stanco del violento vaneggiare del suo avventore ubriaco, lo trascinò di peso fuori dal pub e lo abbandonò in pasto all'incessante pioggia.
Druitt rimase a terra, come un vagabondo. Percepì una forte sensazione di stordimento, seguita da un dolore lancinante alla testa, neanche gli avessero strappato la pelle dalla fronte. In pochi secondi, i suoi abiti s'inzupparono quasi completamente. Affinché il suo stato d'ebbrezza non deformasse ulteriormente le cose, ciondolò la testa a destra e a sinistra per riprendere equilibrio.
Non voglio morire, pensò con un barlume di lucidità. Tentò di sollevarsi, strisciando lungo il muro. Le gambe erano deboli, il freddo solo una formalità.
In lontananza udì una carrozza e i mugugni d'amplesso di un tizio, in compagnia di una prostituta. Accanto a sé nessuna ombra si proiettava, nessuna luce; la notte lo stava inghiottendo.
Strisciò per qualche metro ancora, lacerando la manica della giacca per l'attrito.
Si fermò, colto da sensazioni di vomito. Poi si voltò. Ebbe uno strano sentore, che non poté scindere tra alcool e realtà: qualcuno, o qualcosa, lo stava seguendo.
In fondo alla via, solo il buio. Ma, la paura e quel dubbio di non esser solo, lo sollecitarono ad aumentare il passo.
Ogni colpo cardiaco era rimbombo di campana misto a peso di martello. Si voltò nuovamente e trattenne il respiro, ascoltando lo scroscio della pioggia che modellava il selciato.
Sbatté le ciglia, perché la vista annebbiata potesse migliorare e chiarire i suoi sospetti. Ma, in fondo alla via, ancora buio.
Eppure, era come se il tetro aspetto del viale lo stesse ingannando. Egli sapeva... sapeva che Lui era lì, lo sentiva. E forse, muovendosi nelle tenebre, lo avrebbe raggiunto.
Druitt barcollò, riprendendo a velocità sostenuta; fu allora che una sorta di macchia indefinita, una sagoma più scura della notte, parve giungere dalla sua destra. Sobbalzò, colto da panico. Allarmato, corse a nascondersi al primo vicolo.
Calpestò pozzanghere d'acqua e inciampò su un gatto randagio; il miagolio di quest'ultimo parve l'annunciazione di quella morte che voleva esorcizzare con litri di scotch al vecchio pub.
Spalancò gli occhi, in preda all'angoscia; il vicolo non aveva sbocchi. E il gatto miagolò ancora, coprendo un rumore... un movimento veloce, della coda di un soprabito controvento.
Druitt sfoderò il pugnale.
«Lo so che ci sei!» urlò girando attorno a sé stesso. «Lo so che ci sei!»
Le ultime sillabe produssero un'eco che si perse tra le lacrime del cielo londinese. E fu l'ultima melodia prima del più profondo panico.
Inesorabile, la macchia nera si rivelò, emergendo alle sue spalle tremanti come generata dall'ombra.
Il musicista sentì scoppiare il cuore dalla paura, mentre teneva gli occhi fissi su quel fantasma, quasi fosse l'incarnazione di ogni tremore nascosto in sé. Aveva il viso completamente avvolto da bende e garze... il viso di una mummia su corpo nascosto da lungo cappotto vittoriano. Odorava di pioggia e inferno... Lui.
Mosse il suo pugnale in maniera sgraziata, agitandolo come crocifisso per scacciare lo spettro. L'entità schivò con naturalezza un affondo della lama verso la propria faccia, bloccò il polso dell'uomo e lo strinse fino a disarmarlo. Druitt liberò un urlo di dolore persistente e cadde in ginocchio sulla sua stessa arma.
«Non uccidermi, non uccidermi, non...»
La macchia bendata lo afferrò per i capelli e, senza ascoltar supplica alcuna, lo scaraventò contro il muro. L'urto col mattone fratturò parte del suo naso pronunciato. Sputò a terra del sangue, stordito dall'alcool e dall'impatto, mentre l'individuo delle tenebre manteneva una preoccupante aria glaciale, priva di remore.
«Ti prego... ti pre...»
Non terminò nemmeno; lo spettro lo tirò di nuovo per i capelli, squadrandolo come se lo volesse analizzare... come un macellaio che solleva la carne, per individuare il punto da cui tagliare.
Druitt sputò sangue ancora, e lo fece volontariamente sul bendaggio del fantasma, lasciandosi sfuggire una risata nervosa.
«Finiscimi, bastardo! Coraggio... ormai è tardi... è sempre troppo tardi!»
L'oscura ombra mollò la presa. Con fare di sfida, il musicista si abbandonò a un ghigno stridulo.
«Coraggio...»
Come oscura scultura gotica in movimento, l'individuo delle tenebre impugnò la stessa arma di Druitt. Gliela mostrò... silenzioso, beffardo... anticipandogli, forse, che quella sarebbe stata la fine.
La sua fine.