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Collana Nero Inchiostro

Prologo


Il caporale rimase qualche istante con le orecchie tese e lo sguardo fisso. Attorno a lui una notte senza stelle. Nemmeno una falce di luna a proiettare un barlume di luce. Il militare era sorpreso più che in allarme, ma alla fine si convinse del tutto e diede la colpa del fruscio a un gatto, una volpe, o a un qualunque animale selvatico a caccia di cibo tra le colline e i vigneti del basso Monferrato. Circolava pure la voce di una mezza invasione di cinghiali che, alla stregua di Attila, facevano piazza pulita di ogni tipo di coltura. Erano stati avvistati anche alcuni tassi scesi al piano dall’Appennino Ligure. Tanto più che il deposito militare era isolato in mezzo alla campagna e circondato da un reticolato che faceva acqua da tutte le parti. E così il capoturno non disse niente neanche a Vittorio, per tutti Vichi, il commilitone di servizio stravaccato su una pila di sacchi buttati a terra. Vestiva l’uniforme mezza sbottonata del 21simo Reggimento. Era un fante di stanza alla caserma di Albenga distaccato a sostegno dei turni di guardia del deposito di armi e munizioni di Occimiano.

Il caporale decise di non scomodarsi. Non gli sembrò necessario andare a vedere se stava succedendo qualcosa di preoccupante. Non ce n’era bisogno, nonostante ordini dall’alto imponessero di vigilare con particolare scrupolo. Le autorità militari erano state chiare. Massima allerta. A febbraio la fuga del brigatista Renato Curcio dal carcere di Casale aveva creato una specie di allarme rosso. La sua evasione aveva lasciato tutti a bocca aperta e con gli occhi sgranati per la sorpresa. Il commando armato aveva agito con grande facilità, alla faccia dei sistemi di sicurezza. Una donna armata di mitra si era fatta aprire la porta dal piantone come se niente fosse. Tre uomini erano entrati in azione subito dopo portandosi via il detenuto e aver isolato l’intero carcere con pochi colpi di cesoia all’impianto elettrico e telefonico.

Di fronte a un episodio del genere il comando non voleva correre gli stessi rischi dell’autorità penitenziaria e far fare la figura degli inetti agli alti ufficiali. In più la circolare del ministro era chiara, occorreva mettere in atto provvedimenti utili a contrastare le ipotesi di eversione di gruppi terroristici. Per di più in alcune cascine della zona erano state segnalate tracce inequivocabili della presenza di altri terroristi, forse di passaggio sulla direttiva Genova Torino, e tutto ciò faceva presagire un possibile assalto al deposito da parte di un gruppo di sovversivi per rifornirsi di armi e arsenale bellico.

Area militare bollata quindi come obiettivo strategico.

Nonostante la situazione fosse grave, Vichi era uno di quelli che in caserma tirava a campare e di notte dormiva beato, certo di sentirsi estraneo a quella guerra in atto tra i rivoluzionari e lo Stato e che, da un attacco terroristico, lui non avrebbe avuto nulla da perdere. Quella sera, aveva la testa stordita dal fumo e dalla birra, e il caporale lo sapeva fin troppo bene che non era nelle condizioni migliori per accorgersi di qualcosa di insolito. Nemmeno se gli avessero sparato una cannonata a mezzo metro di distanza.

Inutile chiedere la sua opinione. E così non ci fece più caso.

Una luce opaca filtrava da una finestra rotta e rischiarava l’angolo del magazzino. L’aria fresca della notte aiutava a tenere gli occhi aperti.

Passarono pochi minuti e il fruscio divenne un rumore più distinto. Stridente. Metallico.

Il caporale si guardò attorno, poi drizzò le antenne.

«Cosa c’è caporale? Mi sembri un’anima in pena» disse il fante vedendolo muoversi con un certo nervosismo.

«Non hai sentito niente?»

«No. Però a guardarti, con la faccia che hai adesso, mi fai venire in mente che una volta…»

«Lascia perdere».

«È una bella storia, fa ridere…»

«Ti ho detto di chiudere il becco» e strappò la sigaretta dalle labbra del sottoposto.

«Ma tu sei paranoico, chi ti credi di essere? Il generale Custer? Chi vuoi che venga in questo buco del culo del mondo a fregarsi qualche cosa? Sai che gliene frega ai terroristi di conquistare questa catapecchia piena di topi morti».

E tre. Un tonfo smorzò le parole di Vichi.

Questa volta ancora più vicino.

Il caporale si drizzò in piedi, tendendo le orecchie nel silenzio che di colpo si era messo a ronzare di una musica tutta sua. Anche il commilitone si zittì.

Per due volte di seguito gridò «chi va là!» Rimase a guardare nella penombra senza ottenere risposta. Si spostò di lato e gridò ancora, ma questa volta con voce più sicura, prepotente, come gli avevano insegnato al corso.

Ancora silenzio. Così si decise a fare due passi in avanti imbracciando l’SC 70/90 in dotazione.

«Stai accorto, generale» disse Vichi facendo un verso con la bocca tra lo sbadiglio e il rutto, «quell’arma non è un giocattolo, dove la punti spara per davvero».

«Non è una novità, tutte le armi dove le punti sparano».

«Solo quelle degli altri. Le mie non centrano neanche le chiappe di un elefante a venti metri».

Il caporale si mosse di qualche altro passo. Ebbe la netta la sensazione di vedere il profilo di un corpo buttarsi in avanti per appostarsi dietro un angolo e sparire subito dopo dalla vista. Soffiò sulla brace della sigaretta e sparse nell’aria una leggera pioggia di scintille.

Ti credi furbo” pensò, ma decise di dare ancora una possibilità all’individuo seminascosto.

Intimò «alt!» e «chi va là!» per la quarta volta, ma rimase ancora senza risposta. Tirò l’ultima boccata, fece cadere la cicca a terra e la pestò con gli scarponi d’ordinanza. Puntò l’ombra proiettata fuori dal riparo dei cassoni con i pezzi di ricambio per i mezzi militari. L’altro fece passare qualche secondo poi sgusciò fuori dal rifugio piegato verso terra e muovendosi a zig zag per cercare un nuovo nascondiglio.

«Il solito giochetto» mormorò Vichi ridacchiando.

«Ma stavolta non mi frega» ghignò il caporale muovendo le labbra mute.

«Hai lo sguardo di una faina che punta un pollaio» disse Vichi alzandosi e andando verso di lui. «A cosa stai pensando?»

«Ad andarmene a casa».

«Adesso?»

«No. Fra un paio di mesi».

«Vai in licenza?»

«Congedo illimitato».

«Ma non mi dicevi che hai da battere la stecca ancora sei mesi?»

Dentro di sé il caporale incominciava a intravedere una lu­ce. Come se all’improvviso si sentisse tra le mani l’occasione buona per mollare divisa e servizi in caserma. Respirava un’aria più leggera. Aria di congedo. L’ombra oltre i cassoni gli stava fornendo su un piatto d’argento l’occasione di chiudere con la naja. L’idea gli era esplosa nel cervello di punto in bianco. Poi aveva incominciato a scendere, piano piano, fino in pancia. Le dita risposero agli stimoli stringendosi attorno al grilletto del fucile. Si muovevano sull’acciaio della canna co­me tentacoli di un polpo.

Forte di quello stato d’animo, prese a canticchiare a denti stretti «... I can get no satisfaction...», un pezzo spuntato da chissà dove, con i bassi che pompavano a mille. E intanto scrutava nella penombra con un occhio chiuso e l’altro aperto. Mentre il mirino seguiva il contorno della sagoma in azione.

«‘Cause I try and I try and I try and I try…» Il caporale conosceva le abitudini del tenente. Si muoveva viscido come un’anguilla a pelo della superficie visibile seguendo un piano tutto personale, subdolo quanto squallido. E pure quella sera l’ufficiale aveva abbandonato la branda per entrare in azione. Il suo obiettivo era di incastrarli tutti e due, regolamento alla mano. Altro che terroristi e obiettivi sensibili. Balle messe in piedi per dare maggior potere di controllo agli ufficiali. Il tenente lo faceva d’abitudine. Era opinione comune che fosse una carogna, e come tale si comportava con chiunque. Aveva più giorni di consegna sulla coscienza lui di tutti gli altri ufficiali messi insieme. Per lui in caserma erano tutti un branco di buoni a nulla, e anche questa volta era sicuro di beccare i due di turno al posto di guardia stesi a dormire sui cartoni.

«Ehi, generale Custer, adesso ho capito cosa ti frulla in testa» disse Vichi tirando su la testa come scosso da una scarica elettrica. Poi, come un sacco vuoto, tornò a sedersi per terra. Guardò il caporale dal basso verso l’alto. La voce si fece lagnosa. Strascicò le parole esasperando l’accento veneto. «Quello stronzo non merita tutto il casino che vuoi fare».

Aspirò forte dalla sigaretta appena accesa, una delle tante che fumava tutti i giorni, che si infilava in bocca una dietro l’altra quasi senza neanche sapere di farlo, e fissando il fumo che saliva verso l’alto gli scappò da ridere pensando che il tenente non si meritava tutta quella perdita di tempo perché oltre che essere stronzo come lo sono pochi in circolazione, era uno che quando fumava teneva la sigaretta all’altezza del filtro con la punta delle dita rigide, come fanno i ragazzini quando fumano e non sanno fumare, e come fanno le ragazzine per farsi notare da qualche fighetto più vecchio di loro. E cosa ci si può aspettare da uno così?

Lo disse ad alta voce.

«Sono gli ordini».

Anche se a pagare lo scotto del dovere sarebbe toccato a un tenente che rischiava di ritrovarsi con il cranio spappolato da un proiettile. La cui colpa era quella di non aver capito una cosa troppo importante, e cioè che quella volta la sorpresa era andata a puttane e il gioco era cambiato. Le parti si erano invertite. E il cacciatore non si tirava indietro, aveva accettato la sfida e alzato la posta in gioco. Un cacciatore con i gradi di caporale, e che al corso di tiro non se l’era neanche cavata tanto male. Gli avevano pure dato una licenza premio di due giorni. E il grado di caporale la volta successiva.

Al suo superiore rimanevano pochi istanti per riuscire a comprendere che quella volta c’era in ballo la sua pelle e non il semplice rispetto del regolamento.

Il tenente era per metà allo scoperto.

«Signore, si fermi, lei è sotto tiro!» gridò il caporale.

«Sono io» rispose l’altro, agitando un braccio, e pronto a schizzare fuori.

«Signore, si qualifichi».

«Dai caporale non fare il furbo, mi hai riconosciuto benissimo».

«Signore, venga avanti con le mani alzate».

«Ehi, caporale non mi piace come stai parlando». Vichi cercava di recuperare gli ultimi residui di energia e di dare alle sue parole un tono deciso. Si strinse il nodo della cravatta e cercò di mantenere in equilibrio il basco d’ordinanza. «Adesso mi fai paura».

«Vuoi incularti le prossime licenze?» urlò la figura sul fondo.

«Ormai siamo fottuti» disse ancora Vichi. «Se ci vuole piantare delle grane troverà sempre il modo. Se non è oggi sarà domani o dopo ancora. Lascialo perdere, si diverte così, è un povero frustrato che sta sulle balle a tutti. Al massimo ci prendiamo qualche giorno di consegna, non possiamo uscire, ma non è la fine del mondo, diciamo che ci è venuto mal di gola e andiamo in infermeria che è sempre meglio della camerata, nessuno ci rompe i coglioni e ce ne stiamo tutto il giorno a dormire e a farci seghe con Playboy e Le Ore».

«Ripeto, signore, si qualifichi o sarò costretto ad aprire il fuoco».

«Hai imparato bene la lezione. Vuoi un premio? Due non ti sono bastati?»

Fai ancora un passo in avanti,” pensò il caporale, “e ti brucio il cervello”.

«Dai generale Custer, metti giù il fucile. Non è diverten­te…» disse Vichi, ma ormai le sue parole erano solo un mormorio, quasi sembrava parlare a se stesso, come gli ubriachi che si fanno le domande e si rispondono da soli facendo danzare il bicchiere a mezz’aria.

«Vuoi sparare? Sei proprio coraggioso! E allora fallo, testa di cazzo, e poi vediamo chi è il più bravo fra di noi, ma ricordati, ammazzami e scivolerai all’inferno anche tu, insieme a me».

«Cristo, ma come devo dirtelo che sta diventando un gioco di merda?» replicò Vichi, e incominciò a biascicare l’ultima parola mescolando paura, imbarazzo e voglia di ridere che gli saliva mano a mano che il fumo gli passava dai polmoni al cervello.

«Sparami, se no vaffanculo». L’ombra sul fondo mise fuori la testa e si alzò in piedi come una macchia nera nello scarno controluce del deposito. «Dai sparami, coraggio, soldatino».

E si incamminò verso il proprio destino a braccia larghe come un Gesù Cristo in croce gonfiando a ogni passo la tuta grigia.

Il caporale lo fissò con la stessa intensità e con altrettanto distacco, proprio come faceva al poligono di fronte agli obiettivi in cartone. Era una notte troppo cupa e tesa per non desiderare il blues di Steve Ray Vaughan, o la ruvidezza di Mick Jagger. Ma in quel momento il suo compito era un altro, e obbedire alle regole lo doveva prima di tutto a se stesso.

Si aggiustò il calcio contro la spalla senza staccare l’attenzione dall’avversario, lo teneva sotto tiro, perfettamente inquadrato, nitido, mentre il resto del mondo gli sembrava opaco e sbiadito. Solo il bersaglio era sempre a fuoco nonostante gli spostamenti nervosi del superiore.

«Ma non vorrai sparargli per davvero?»

«Taci» disse il caporale.

«Cazzo… cazzo… tu sei fuori di testa, come quell’altro matto, siete tutti e due da ricovero, e poi date a me dello scoppiato per queste quattro canne che mi fumo!» e si curvò verso terra tappandosi le orecchie con le mani.

Il caporale accarezzò la canna fino al mirino, poi mosse l’indice con la stessa sicurezza di un chirurgo che incide la carne del paziente. Sparò un primo colpo, senza le mani sudate, né palpitazioni, ma nel nome di una regola che aveva accettato gridando un collettivo «lo giuro» in quel giorno di settembre dell’anno prima, sotto il sole che sferzava la schiena, nel cortile della caserma che puzzava di nafta. Sparò anche una seconda volta, senza sensi di colpa ma neppure gioia, mentre il tenente Vincenzo Carrozza, ventisette anni, ufficiale di carriera, stramazzava a terra cadendo sulla schiena.

«Cristo, caporale, lo hai steso per davvero!» disse Vichi piagnucolando, e sollevò il basco sopra una faccia spigolosa diventata gialla. Alla fine allargò le braccia molli e incominciò a girare su se stesso sbattendo le mani contro le gambe.

«Niente balletti nevrotici, imbecille» e lo serrò alla gola. L’altro cercò di divincolarsi ma il caporale strinse ancora di più «Hai capito?»

«Sì».

«Tu eri al tuo posto e non hai visto niente di quello che è successo, hai solo sentito i colpi. Ma era tardi per farti un’idea di quello che stava succedendo. E fai sparire quella merda che stai fumando prima che ti vada in pappa il cervello». Senza testimoni, nel corso dell’inchiesta le cose sarebbero state più semplici. Le provocazioni del tenente erano di dominio pubblico.

Il caporale tagliò l’oscurità del magazzino per dirigersi verso il corpo dell’ufficiale. Quando gli fu accanto si accovacciò a terra, come faceva sul buco della latrina, stringendo la canna del fucile piantato tra le gambe aperte per mantenere l’equilibrio. Non vide subito gli occhi del superiore coperti da una fascia di ombra, ma lo riconobbe dal leggero pizzo che gli incorniciava il mento. Era proprio lui. Lo sentì mormorare alcune parole. Comprese solo l’ultima: «…inferno». Poi sopraggiunse la rigidità della morte.

Lo fissò senza provare una qualunque emozione, pensò che anche quella notte l’ufficiale aveva fatto qualcosa di profondamente stupido. Come forse lo aveva fatto ogni giorno della sua vita.

Qualcosa di inutile e senza senso, se non regalare un nulla osta per un congedo anticipato.