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Collana Giallo Grano

1.

Un'ultima verifica. Ancora uno sguardo prima di partire. Ricordi e speranze.
Reception e liquori. L'innominabile 
moneta.
Portineria, battibecco. In strada. Auto e sigla. Via!

Enzo rimaneva seduto, con lo sguardo fisso sul foglio che teneva stretto tra le mani, la schiena curva, il busto proteso in avanti in una posizione scomoda, innaturale. Per alleviare il senso di fastidio puntò gli avambracci sulle ginocchia, avvertì un lieve formicolio spandersi per le estremità superiori, dagli scabri e ossuti gomiti alla morbida punta delle dita.

Negli ultimi due giorni non aveva fatto altro che leggere e affinare quanto era scritto su quel cencio di carta. Conosceva così intimamente quel testo che avrebbe potuto recitarlo a memoria, certo di non omettere una sola parola, una virgola, e tantomeno un punto.

La maggior parte dei caratteri gli appariva sfuocata, simboli distorti, snaturati di significato, meglio con i segni in maiuscolo o marcati in grassetto, di più facile lettura. Le righe si sovrapponevano, ora ne spuntava una da sopra, ora un'altra spingeva dal basso, fluttuavano ampie e sottili sulla pagina, per poi morire come piccole onde merlate di schiuma sulla battigia.

Sotto quella soglia era impensabile scendere, sarebbe stato come andare contro ogni logica di profitto e screditare le più banali regole del commercio. Impossibile agire altrimenti; e avrebbe dovuto altresì rendersene conto il suo oramai più che probabile committente. Enzo avrebbe sfidato chiunque a trovare chi eseguisse il lavoro a un prezzo minore, garantendo lo stesso livello qualitativo e nei giusti tempi di consegna. Si trattava solo di convincere la controparte ad accettare i termini di pagamento che aveva proposto.

Con il venti per cento di anticipo avrebbe avuto modo di acquistare il materiale, altrettanto a fine lavoro gli avrebbe dato un po' di respiro, e il rimanente in tre tranche, a sessanta, novanta e centoventi giorni. Riascolto nella sua mente il suono di quelle tre parole: "Sessanta, novanta, centoventi", e fu soddisfatto della loro musicalità.

E, a riprova, aggiunse:

˗ Novanta, centoventi, centocinquanta.

Avvertì che male s'intonavano le une con le altre. Decise che avrebbe lasciato le prime e non avrebbe apportato più alcuna correzione, ormai aveva masticato a sufficienza ed era venuto tempo d'ingoiare il boccone.

Fermò l'attenzione sul grande orologio con datario appeso alla parete. Lesse: "Domenica di fine novembre". La posizione delle lancette indicava che era tardo pomeriggio: il momento di andare.

Si alzò dalla sedia. Le pareti della stanza pulsarono, si avvicinarono flettendo, vibrarono. Per sorreggersi appoggiò il palmo della mano sul bordo della scrivania. Gli ci vollero un paio di minuti per riprendersi. Si asciugò l'inesistente sudore sulla fronte, afferrò l'allegato che descriveva l'offerta economica e lo ripose nella valigetta, a far compagnia al resto del contratto, alle certificazioni e alla dettagliata ed esaustiva relazione tecnica.

Pochi passi ancora malfermi e si arresto sulla soglia, ondeggiando lievemente.

Si voltò e rivolse lo sguardo alla stanza di lavoro, rammentando della prima volta in cui vi aveva messo piede, insieme all'inespressivo agente immobiliare che lo aveva accompagnato in visita ai locali. Gli erano piaciuti subito: all'interno di un palazzo dei primi dell'Ottocento, volte a botte, piacevole e indiscreta vista sulla piazza, all'inizio del corso principale. Al termine del breve sopralluogo aveva sguainato la penna biro e sottoscritto il contratto. Allora era convinto che quella firma avrebbe dato il via a un nuovo folgorante corso, mai avrebbe immaginato che in seguito gli eventi avrebbero deviato su una rotta tanto diversa.

Prima di abbandonare la stanza, si concesse un istante per osservare la targa affissa sulla porta spalancata verso l'interno. Vi lesse: "Direttore Commerciale". Avverti la bocca curvarsi in un malinconico sorriso di autocompatimento e non fu capace di trattenersi:

˗ Bel direttore che sono! A son propi 'n diretur dal bali! ˗ e la frase risuonò triste e sgradevole attraverso gli uffici deserti.

Imboccò il corridoio.

Di quadri, nemmeno la più pallida ombra, neppure un alone. I soci lo sapevano bene che mai si sarebbero accordati su cosa appendere alle pareti e così, armati di un insolito buon senso, le avevano lasciate spoglie, evitando di andare a impelagarsi in inutili ed estenuanti discussioni.

Sulla sinistra si aprivano due ampie finestre che affacciavano sul palazzo di fronte, da diversi mesi in manutenzione e intrappolato tutto intorno da luccicanti ponteggi metallici. In quel giorno festivo non vi erano operai al lavoro, ma durante la settimana si poteva assistere a un andirivieni di maestranze che salivano e scendevano, urlavano gli uni contro gli altri, scambiandosi insulti in dialetti e lingue diverse, alcune incomprensibili, altre più abbordabili, una moderna torre di Babele, insomma. Sulla destra porte chiuse, di là delle quali vi erano gli uffici dei soci. Rilesse a voce alta le insegne:

˗ Marketing, Amministrazione, Segreteria. Chiuse, sempre porte chiuse! ˗ esclamò. ˗ E dove appare in bella mostra la scritta "Amministrazione", e raro che io abbia il piacere di vedervi qualcuno dentro!

Giunse all'ingresso.

Dall'appendiabiti tolse cappotto e cappello e li indossò. Sprofondò le mani nelle tasche e trovò un talloncino rettangolare. Lesse: "Dottor Mario Stizzani". Si chiese chi fosse. Non rammentava che qualcuno con un tale nome gli avesse lasciato il proprio biglietto da visita. Lo guardò con maggiore attenzione. Notò quanto fosse singolare, e di sicuro realizzato senza badare a spese: angoli

arrotondati, plastificato su entrambi i lati, con tanto di foto del legittimo proprietario che lo fissava con un muso accigliato che ispirava tutt'altro che simpatia.

Si convinse che il cartoncino gli fosse arrivato tra le mani per sbaglio, e ricaccio nel buio della tasca il signor Stizzani.

Un po' per scherzo, un po' per davvero, era sempre stato dell'avviso che in quella prima stanza ci sarebbe stato a meraviglia

un bel bancone, con dietro nientemeno che una addetta alla reception, graziosa, sorridente e sempre pronta a sfornare caffè per i clienti e il personale dell'ufficio, e a occuparsi di un carrello con tante belle bottiglie di liquore, di varie marche e tipo, dalle etichette accattivanti e colorate. Quell'innovazione avrebbe dato un tono all'ambiente e messo nella migliore predisposizione d'animo eventuali visitatori.

Idea grandiosa, un parto di rara genialità e saggezza, ma che di certo gli utili dell'agenzia non avrebbero consentito: erano mesi che in cassa non entrava una lira.

"Lira", quanto risuonava armoniosa quella parola! Rievocava dolci melodie mediterranee di antichi strumenti a

corda e, senza andare troppo lontano nel tempo, periodi per lui senz'altro più felici.

In quell'ufficio si ragionava ancora in lire, almeno su quello erano tutti d'accordo.

La nuova moneta, che tanto nuova non era poiché circolava già da diversi disgraziatissimi anni, non andava giù a Enzo, faticava addirittura a nominarla, un suono duro, tronco, sgradevole, impronunciabile.

Un tale aveva profetizzato che con l'innominabile moneta si sarebbe lavorato un giorno di meno guadagnando come se si fosse lavorato un giorno di più, o roba del genere.

Nonostante ci si accanisse a sostenere l'indifendibile, era evidente che l'oracolo avesse fallito, e che qualcosa fosse andato per il verso sbagliato. Su una cosa tuttavia il vaticinante aveva avuto ragione: che si sarebbe lavorato di meno; a contare il numero dei disoccupati, dei professionisti a spasso per i giardinetti pubblici, delle imprese edili che non muovevano più un mattone, delle centinaia di aziende che ogni giorno chiudevano i battenti, si giungeva facile alla conclusione che era stata una previsione che aveva

colto perfettamente nel segno.

Guardò per un'ultima volta le pareti disadorne e, prima di spegnere il contatore generale, fece finta di salutare la inesistente addetta alla reception:

˗ Buonasera, Maria, ˗ fu il primo nome che la scarsa fantasia di quel momento gli suggerì. ˗ A domani. Le auguro una buona serata.

Svoltò a destra e si avviò per le scale. C'era solo un piano a scendere e, come d'abitudine, ignorò l'ascensore.

Si ritrovò nell'atrio.

Vicino alla portineria notò uno strano individuo che gli ricordava un personaggio televisivo, ma dubitò che fosse lui. L'uomo, con toni accesi e modi da esagitato, si accaniva contro una donna che, a quanto pareva, non sembrava avesse problemi a tenergli testa.

Per discrezione non si soffermò ad appurare quale fosse la causa del violento confronto verbale e passò oltre, con aria indifferente.

Raggiunse la strada.

L'auto era parcheggiata davanti al portone. Prima di salirvi, si soffermò a osservare la fiancata dalla parte del guidatore. Le girò intorno. Considerò il retro, il lato del passeggero e, arrivato al cofano, indugiò sullo stemma che era al centro: una corona nera che delimitava un tondo diviso in quattro parti, a colori alternati, bianco e blu. Tre lettere scritte in stampatello troneggiavano: la M al centro e più in alto rispetto alle altre, la B a sinistra e la W a destra. Si ripromise di informarsi del significato, se lo era domandato

tante volte ma mai che si fosse dato pena di cercarne la soluzione.

Avviò il motore. Udì un soffio pieno, ovattato.

Soddisfatto, ingranò la marcia e parti.

Il viaggio, senza

più nulla che lo trattenesse, poteva iniziare.