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Collana Nero Inchiostro

L’ATTENTATO


Al centro della stanza un lettino ginecologico sembra un altare votivo su cui il sacerdote compie il rito dell’offerta di una vittima sacrificale.

Lei è già lì, distesa.

Mi metto dietro di lei, accanto alla testa. Rimango immobile e in silenzio.

Sono emozionato perché sto per assistere alla nascita di una bimba che è mia, ma anche perché un parto è di per sé un evento importante.

La nascita di una creatura è un contributo alla continuità dell’umanità stessa.

Soffre, ha tanto male, ma non grida, resiste con orgoglio e coraggio e spinge, con forza, per liberare la creatura e liberarsi del dolore insopportabile.

Improvvisamente la pace. Il silenzio rispettoso nella sala. Poi finalmente il piccolo grido della bimba e da quel momento il sorriso felice sulla bocca di tutti i presenti.

Anche questa volta il cammino è stato ripercorso, come miliardi di altre volte. Tutto bene, un altro piccolo, infinitesimo contributo è stato dato.

Mi avvicino all’infermiera che con abili manovre sta lavando la piccola, la quale, silenziosamente, subisce questo primo contatto con le realtà della vita. Terminato il lavaggio l’infermiera la asciuga con delicatezza, la pettina con uno spazzolino e poi la posa sul bancone a faccia in giù, con le gambette ripiegate su sé stesse. È una posizione a uovo, perfetta nell’esecuzione, e la testina quasi scompare tra le piccole ginocchia e il dorso. Suscita molta tenerezza perché è tanto minuscola, delicata, inerme, e io vorrei coprirla con il mio corpo per proteggerla da chissà quale nemico immaginario. È la seconda volta che sono presente all’inizio di una vita fin dal primissimo istante e forse non mi accadrà mai più.

Purtroppo è più facile assistere alla fine di una vita umana piuttosto che all’inizio. Ad alcuni addirittura non è mai data occasione, o non la vogliono cogliere, di rimanere a osservare il momento della nascita di una creatura. Invece ai decessi ci dobbiamo, presto o tardi, abituare tutti. In quei momenti si sentono congiunti e amici ripercorrere le tappe dell’esistenza del defunto. Ma nessuno è mai in grado di descriverne i primi istanti di vita. Talvolta mi sono domandato se la Storia avrebbe avuto un corso molto diverso se ai contemporanei fosse stata data la possibilità di assistere all’istante della nascita di alcuni grandi personaggi. Sarebbero riusciti ad avere un seguito uomini come Cesare, Napoleone o Hitler se i loro contemporanei li avessero visti come teneri, indifesi, dolci neonati?

Una domanda sciocca e inutile, mentre ora l’importante è che io non debba mai assistere alla fine di questa vita che ho appena visto iniziare: in tal caso si sovvertirebbero le regole della natura e di me non sopravvivrebbe più nulla.



La bimba ha compiuto un mese la settimana scorsa.

È molto graziosa. Tutti i bambini piccoli lo sono, ma i propri di più.

Daniele, mio figlio, è perplesso; la presenza di questo nuovo essere lo inquieta perché non riesce ancora a individuarne le caratteristiche: dicono che sia una bimba ma non gioca e non parla, dicono che sia sua sorella ma cosa significhi non gli è chiaro. È evidente però che questa nuova venuta lo priva di molte attenzioni dei genitori attirandole su di sé, e questo lo infastidisce alquanto. Tuttavia lo scopriamo qualche volta avvicinarsi alla culla, osservare a lungo la piccola e poi farle una carezza.

Lei, mia moglie, è un po’ stanca: i bambini le danno molto lavoro e io riesco ad aiutarla solamente durante il breve tempo che trascorro a casa.

Ma siamo felici, e del resto perché non dovremmo esserlo?

Oggi è sabato, non lavoro e mi posso godere in pace i bambini. Giro per la casa senza uno scopo preciso; un po’ gioco con Daniele, un po’ leggo il giornale.

Lei mi annuncia che deve uscire per andare al supermercato a fare la spesa. Daniele preferisce non andare con lei, ma restare a casa a giocare. Le do un bacio sulla porta di casa mentre sta uscendo.

Daniele mi prende per mano per andare in camera sua a giocare.

La porta di casa si chiude dietro di noi. Fa un rumore strano, diverso dal solito, così mi sembrerà quando ripenserò a questi momenti.

Giochiamo a palla, poi Daniele vuole che gli legga un libro.

«Quale libro vuoi che leggiamo?»

«Non lo so. Quello che vuoi tu».

«Vieni, andiamo a cercarne uno bello».

Lo prendo per mano e lo conduco davanti alla nostra libreria; con lo sguardo passiamo in rassegna i libri sugli scaffali. La scelta di un buon libro è una specie di rito che lo fa sentire grande, importante. Anche a me piace. Ho voluto renderlo io tale, sottolineando la ripetitività dei gesti e dei movimenti.

Preso il libro ci andiamo a sedere sul divano del salotto, uno accanto all’altro, e io comincio a leggere qua e là le spiegazioni al di sotto delle belle fotografie di animali.

C’è silenzio in tutta la casa e anche fuori. Dalla finestra aperta filtra il cinguettio di qualche uccellino.

Daniele continua a sfogliare il libro affascinato dalle figure e io accendo la televisione per sentire le notizie del giorno, ma soprattutto per gustarmi il recente acquisto di una a colori che ha sostituito la vecchia in bianco e nero. È stato un acquisto importante perché il prezzo è molto alto. I miei genitori mi hanno regalato trecentomila lire per il mio compleanno e io ne ho aggiunti altrettanti ma ho comperato proprio una bella televisione, come ce ne sono poche nelle famiglie perché sono commercializzate da poco tempo in Italia. È costata quasi quanto il mio stipendio di un mese, ma ne valeva la pena. Mia moglie ha gradito e mio figlio ancor di più. La sera ci riuniamo a guardarla, e Daniele può rimanere alzato a vedere Carosello, poi deve andare a letto. Il pomeriggio, terminati i compiti, gli lasciamo vedere Furia cavallo del West, la sua passione.

Verso mezzogiorno la bambina si sveglia e comincia a piangere; Daniele è concentrato nello sfogliare il libro ed esaminare minuziosamente i particolari delle immagini, e vado a cambiare la bambina.

Si sente un rumore appena udibile, pare uno scoppio, si direbbe sia in lontananza.

Quando ho terminato di cambiare la bambina, la rimetto nella culla e poco dopo si riaddormenta, così io posso andare a sdraiarmi sul divano davanti alla televisione in tranquillità.

Guardo l’orologio: dodici e quaranta. È passato parecchio tempo da quando è uscita e quindi mi domando come mai non sia ancora ritornata. Tre ore sono più che sufficienti per comprare qualcosa al supermercato, anche ammesso che ci fosse molta gente. Come mi accade spesso quando sono un po’ preoccupato, essendo di carattere ansioso mi pongo delle domande e mi do delle risposte: si sarà guastata l’auto? Mi avrebbe telefonato. Sarà forse andata anche in altri negozi che non mi ha detto?

Guardo ancora un po’ di televisione poi decido che è meglio sfruttare il tempo preparando già la tavola per quando arriverà. Mi faccio aiutare da Daniele. Chiamo mia suocera attraverso il citofono interno della casa ma anche a lei non risulta che avesse altre commissioni da fare oltre il supermercato.

Per distrarmi e far passare il tempo alzo la cornetta del telefono sul tavolino accanto al divano e chiamo mio padre, che non sento da qualche giorno. Mi racconta della sua auto guasta che ha dovuto lasciare dal meccanico, del tram preso per tornare a casa e di una signora che gli ha ceduto il posto per atto di cortesia data la sua età e del sedile scomodo perché il tram era vecchio e aveva ancora i sedili di legno. Lo ascolto senza interesse.

Quando finalmente ci salutiamo e chiudo la conversazione guardo nuovamente l’orologio: l’una e mezza.

Il supermercato dista dalla nostra casa poco più di due chilometri e la strada percorribile è unica: non mi resta che prendere l’auto e andarle incontro. Avviso mia suocera che esco e lei verrà tra poco a sorvegliare i bambini. Avvio l’auto ed esco dal cancello precipitandomi per la ripida discesa della stradina collinare; quando finalmente svolto nel corso principale, largo e rettilineo, posso ricominciare a pensare e a fare delle ipotesi.

Con gli occhi attenti scruto la strada, in attesa di scorgere la sua auto ferma. Percorro il corso fino a giungere in prossimità di piazza Zara.

In quel tratto ci sono i negozi dove avrebbe potuto fermarsi per ultimare le spese.

Davanti a me l’autobus di linea si ferma perché due auto che si sono tamponate sono ferme e ostruiscono la carreggiata. Una Fiat 128 ha urtato violentemente una Lancia Beta. Questo contrattempo mi innervosisce parecchio e suono il clacson, cosa che non faccio quasi mai. Quando finalmente riusciamo a passare vedo che i due conducenti stanno discutendo animatamente.

All’incrocio mi devo nuovamente fermare perché il semaforo è rosso. Quanto arriva il verde aziono il lampeggiatore, lascio passare un’auto che proviene in senso contrario, e finalmente svolto a sinistra.

Di fronte a me, esattamente nel punto in cui si trova il supermercato, una nube di fumo aleggia a mezza altezza, coprendo come un immenso tetto una vasta zona, forse alcuni isolati. Il supermercato dista circa cinquecento metri, al di là del ponte. Odo il rumore di una sirena che si avvicina rapidamente: è una vettura della Polizia che svolta nella via in cui mi trovo, mi supera a tutta velocità e si dirige verso il ponte. Udendo la sirena ho rallentato fino a fermarmi accostando al marciapiede. Ora sono fermo, con gli occhi fissi sulla nube di fumo e il cuore che accelera i battiti. Riparto e arrivo all’imbocco del ponte da dove posso scorgere la folla che circonda l’edificio del supermercato. Non mi sono accorto che sono nuovamente fermo: il ponte è totalmente ostruito da una colonna di autoveicoli e persone, solamente gli automezzi della Polizia, dei Carabinieri e dei Vigili del Fuoco riescono a fatica a circolare per entrare e uscire da quella confusione a sirene spiegate. Sono completamente sudato e tremo persino un po’. Lentamente e progressivamente divento più calmo e più lucido: con una rapida inversione di marcia mi tolgo dall’ingorgo e infilo una strada traversa dove trovo facilmente un parcheggio. Ritorno indietro a piedi e giungo nuovamente al ponte. Ora posso rendermi conto meglio della situazione: l’edificio del supermercato è circondato da un cordone di uomini delle Forze dell’Ordine che arginano la folla dei curiosi. All’interno del cordone si intravede un frenetico viavai di pompieri, di camici bianchi e agenti. La massa della folla si estende compatta tutto intorno per alcune decine di metri per poi frastagliarsi in mille rigagnoli tra le vetture ferme. Avanzo con decisione lungo il marciapiede del ponte, insinuandomi tra i curiosi. Arrivo all’altra estremità del ponte e mi fermo.

La sua auto: se vedo la sua auto vedrò anche lei, penso. Giro tutt’intorno lo sguardo alla ricerca dell’azzurro dellaA112. Spingo lo sguardo fin dove è possibile, ma la folla e gli automezzi non permettono di vedere più in là di alcuni metri. Ritorno indietro di qualche passo e salgo sulla larga spalletta del ponte: da lì la visione è più ampia, dominante, e insieme all’azzurro dell’auto decido di cercare anche il biondo dei capelli. Il biondo attira la mia attenzione mille volte, per poi deludermi sempre. Da quella posizione posso anche vedere meglio l’ingresso del supermercato: si estende per un intero lato dell’edificio, quello che fronteggia l’ospedale, ed è costituito da due rampe convergenti verso il centro sulle quali si affacciano numerose porte a vetri. Tutto il fronte degli ingressi è realizzato con lastre di vetro, a differenza degli altri tre lati della costruzione che sono in muratura e privi di aperture eccetto le porte di servizio. Quell’immenso fronte trasparente permette di vedere bene dall’esterno tutto l’interno del supermercato, svolgendo contemporaneamente la doppia funzione di sorgente di luce e di attrattiva pubblicitaria. Ora di quelle vetrate non rimane traccia se non negli scheletri anneriti dei telai metallici. Le due rampe sono ingombre di vetri rotti, macerie, parti irriconoscibili di banconi da esposizione e altri detriti. In alto, all’altezza del soffitto e per tutta la lunghezza dell’ingresso, fuoriesce lentamente del fumo denso: pare una gigantesca lama che, giunta allo spigolo del tetto, si incurva verso l’alto uscendo all’aperto. Rimane compatta e regolare per un po’, poi l’aria la scompiglia facendola ondeggiare fino a disfarla in pennacchi sempre più sottili che si ricompongono in alto a formare la grande nube che grava su tutta la zona

Dal punto di vista in cui mi trovo posso vedere solo due lati dell’edificio, quello d’ingresso e quello contiguo. Quest’ultimo non è più un lato cieco perché ora c’è una fenditura larga circa mezzo metro alla base che si allarga verso l’alto fino a raggiungere un’apertura di qualche metro in prossimità del tetto. Anche da quella breccia esce del fumo. Osservo a lungo la scena, poi mi ricordo che ho una ricerca da compiere e decido di scendere dalla posizione sopraelevata e vago un po’ a caso tra la gente, osservando i visi a uno a uno, spingendo per farmi largo e venendo urtato a mia volta. Sono sconvolto e non riesco a fermare i pensieri che si rincorrono confusamente. Vorrei avvicinarmi all’ingresso, ma rimango fermo a guardare l’edificio semidistrutto. Due infermieri escono reggendo una barella, raggiungono una delle tre ambulanze parcheggiate davanti, vi caricano rapidamente il ferito e partono facendosi largo con la sirena. Il viaggio è breve, perché l’ospedale è proprio di fronte. Una signora anziana, incuriosita e attonita, mi domanda cosa sia successo. Sto per rispondere che non lo so, ma un signore accanto a noi che ha udito la domanda e si affretta a intervenire per dimostrare che è al corrente di tutto.

«C’è stato un attentato» inizia laconicamente, ma si intuisce che desidera aggiungere dei particolari. «Una bomba»prosegue per invogliarci.

«Una bomba? Dov’è scoppiata?» domanda la signora.

«Lì, nel supermercato. Uno scoppio violentissimo che ha devastato tutto. Era un’ora di punta e c’era molta gente. Ha fatto una vera strage. Ci sono molti morti e feriti. È quasi un’ora che ne stanno portando fuori e le ambulanze li portano all’ospedale. Ma dicono che la Polizia non vuole che siano mossi i cadaveri prima di aver fatto le fotografie e i rilievi. Devono fare le indagini».

«Ma chi ha messo la bomba?» chiede la signora.

«Eh, signora, non si sa per adesso, e forse non si saprà mai, come le altre volte. C’è là un uomo con una radiolina a transistor, diceva che qualche minuto fa hanno interrotto le trasmissioni per annunciare un attentato a Torino che ha fatto una strage. Pare sia stato rivendicato da uno di quei gruppi armati… non lo ricordo bene, uno di quelli soliti, però».

«Che disastro! Chissà quanti morti ci sono!» dice la signora spaventata.

«Sembra tanti, e moltissimi feriti. Io ero laggiù all’altro incrocio, quando c’è stato lo scoppio e ho sentito un vero boato. Subito non ho capito da dove arrivasse, poi ho visto la gente che correva da questa parte e sono corso anch’io. Sono stato uno dei primi ad arrivare. Qualcuno era già entrato per portare fuori i feriti che urlavano, ma c’era un gran fumo e poi stavano arrivando le ambulanze e la Polizia. Sono arrivati i Pompieri e non hanno più lasciato entrare nessuno perché avevano paura dei crolli e con il fumo presente all’interno non si vedeva niente e ci volevano le maschere. Adesso il fumo è poco rispetto a prima: dovevate vedere quando sono arrivato qui! Era una cosa impressionante. Beh, lei è giovane e non si può ricordare,»continua rivolgendosi a me, «ma io che il tempo di guerra me lo ricordo bene, ecco, ho sentito un boato come quando bombardavano e scoppiava una di quelle grosse bombe dirompenti».

«Santo Iddio, come facciamo ad andare avanti co­sì?» esclama la signora.

Non sento più nulla. Il loro dialogo prosegue, ma non sono più in grado di intenderlo: avverto solamente delle voci vicino a me.

«… ucciso… povera gente che non c’entra niente. Cosa credono di ottenere? Non lo sanno neanche loro. Certo, quando li prendono dovrebbero dargli una bella lezione. In questi casi ci vuole la pena di morte: allora ci penserebbero prima di fare queste cose. A parte che tanto non li prendono, finora ne hanno presi ben pochi e tutti pesci piccoli, che non contano niente. Tutti i pesci grossi, i capi, sono ben protetti… quelli non li prendono, non li vogliono prendere».

La testa mi gira. Tutto gira. Anche i miei pensieri. Non so chi sta parlando, non seguo, non riesco ad ascoltare i discorsi. Tutto gira. Il paesaggio intorno a me gira. Sono sulla grande giostra dei cavalli, sono su un cavallo che gira e contemporaneamente dondola in su e in giù ritmicamente; cavalco il mio grande cavallo, galoppo più veloce degli altri, supero a uno a uno gli altri cavalli della giostra per poi restare da solo alla testa. Cavalco e giro, giro, giro in groppa al mio cavallo e scordo la realtà che sta fuori della giostra, appena giù dalla grande pedana. La realtà è là e io la guardo scorrere veloce davanti a me, passare sempre più sfumata, sempre più confusa, sempre più lontana da me. Ma la mano del macchinista abbassa inesorabilmente la leva, la muove quando vuole lui, senza una regola, senza un tempo prestabilito, incurante del mio sogno, e la giostra rallenta fino a fermarsi. Devo scendere dal cavallo.

Devo scendere dalla pedana.

Non salirò mai più su quella giostra.

«Signore… signore… si sente male?»

Sento appena, come se la voce arrivasse da lontano.

«Questo signore si sente male, fate largo, aiutatemi a tenerlo su, non sta in piedi, è svenuto!»