Home     Chi siamo     I nostri libri     Collane     Autori

Pubblica     Esordienti     Eventi     Stampa     Contatti


Collana Nero Inchiostro

CAPITOLO 1


Praga, Repubblica Ceca, A. D. 2018.


Patrick Frantisek uscì dalla stazione della Metropolitana Mustek, situata ai margini della zona pedonale. Proseguì verso il lungofiume, tagliando per delle vie interne sino a raggiungere il Rudolfinum, il magnifico auditorium che troneggia nel cuore di Praga.

Il giovane si inebriò dell’aria frizzante del mattino, mista ai miasmi di carne alla brace. Patrick intravide una nebbiolina succulenta levarsi dai chioschi di salsicce disseminati agli angoli delle strade. Frattanto, un negozio di souvenir poco distante sparava musica techno ad alto volume.

«Non è ancora tempo per le invasioni dei turisti e già siamo messi così!» Istintivamente scrutò l’andirivieni dei passanti indaffarati. «Mhmm… Ma che espressioni allegre! Il mugugno Ceco, il nostro marchio di fabbrica. Un Requiem con Brio, direi. Quasi quasi lo brevetto».

Patrick si voltò, osservando un nugolo di persone discendere l’arteria stradale Vinodraska.

«È incredibile come qui tutti mostrino la stessa andatura cadenzata. Riesco a intuirne i battiti per minuto dalle vibrazioni sul selciato. È questo il ritmo di Praga? Una quantizzazione1 robotica? Bah, meglio non pensarci, queste sono deviazioni da musicista».

Scansò una mandria di arzilli pensionati tedeschi intenti a sciamare per le vie del centro; i soliti turisti disciplinati, agli ordini della guida armata di cappellino e bandierina antidispersione.

«Anche quando siete in vacanza sembrate in fabbrica! Ma in fondo, magari fossero tutti così. Qui fra poco ci sarà la fiera del turismo Low-Cost. Tutti a Praga con quattro soldi in tasca e tanta voglia di fare casino nel Luna Park d’Europa! Poi i buzzurri tornano a casa e si lamentano sui social che noi Cechi siamo scorbutici. Vorrei sapere se a casa loro c’è gente che cena poggiando i piatti sul selciato. Ma che schifo!»

Lo scenario incantevole della Torre dell’Orologio inondata dal chiarore del mattino smorzò i mesti pensieri. Il giovane non si stancava mai di osservare gli angoli più suggestivi di Praga, attraverso le sfumature di luce che ogni stagione regalava. Patrick amava ripetere che la città era una principessa triste, e che ogni nuance ne esaltava il fascino gotico. Ma quello, non era tempo di passeggiate romantiche.

Il giovane diede uno sguardo all’orologio e aumentò il passo. Karel Soukup lo attendeva a Palacha Namesti, la piazza antistante il palazzo del Rudolfinum.

«Sei in ritardo» lo accolse flemmatico. «Come al solito».

«Buongiorno Karel! Ma dai, non sono neanche scaduti due minuti!»

«Due minuti di delay sono un’era geologica per un percussionista. Noi non cazzeggiamo con le note come i trombettieri».

«Trombettisti. I trombettieri stanno nell’Esercito».

«È lo stesso. Voi fate i furbi col riverbero. Noi no: o tieni il tempo, o ti cacciano».

Patrick sbuffò, incassando il colpo. Non amava le distonie di personalità del suo compagno di studi. A un rigore certosino nel suonare la batteria Karel opponeva un classico look da centro sociale antagonista: parka, kefiah annodata al collo, pizzetto anarchico, anfibi e gli immancabili jeans stracciati sulle ginocchia. Karel aveva perso il conto di quante volte la Polizia lo avesse fermato per strada per il controllo dei documenti.

«Sì, sì, conosco la solfa, Karel. Le percussioni reggono tutta l’orchestra…»

«Esatto. Fanculo il Rettore. Lui agita la bacchetta, ma chi pesta duro siamo noi».

«Bel lessico! Ma che hai stamattina? Sento anche uno strano odore, o sbaglio?»

«Sono passato al Centro Bakunin a rassettare. Ieri sera c’è stato un piccolo concerto per la pace. C’erano anche delle squinzie di Brno. Stamattina ho incontrato un amico lì, e sai com’è… Una sigaretta tira l’altra, e poi...»

«No! A quest’ora, Karel! Non sono nemmeno le nove e mezza!»

«Mica bisogna timbrare il cartellino per godersi la vita! Sono arrivato prima di te, o sbaglio?»

«Touché!»

«Comunque, non siamo soli». Karel indicò il piazzale, costellato di raduni improvvisati. Ovunque si intravedevano capannelli di giovani intenti a chiacchierare, come fossero in procinto di consumare l’aperitivo.

«Già, non l’avevo notato».

«Sono arrivati adesso…»

«Sembra che si siano dati appuntamento per una gita».

«L’appuntamento ce l’avete nel sangue! Ve lo imprimono alla nascita con un chip sottocutaneo. Il tic-tac cecoslovacco, l’unico ritmo vitale che conoscete. La variazione sul tema è una birra al tavolino, sai che goduria! E non far finta di non sapere di cosa sto parlando. Chissà se scopate anche all’unisono, eh, eh…»

«Oggi è una giornata di vacanza regalata. Ce la prendiamo con calma, va bene? Basta con i processi alla Kafka!»

«Hai ragione. Scusami, sto sbollendo il trip. Ma mi spieghi che ci vedi di vacanza?»

«E me lo chiedi? Oggi niente lezioni! Hai letto WhatsApp? “Gli studenti del Conservatorio sono cortesemente invitati alla matinée organizzata dall’Orchestra Nazionale Sinfonica”. Niente musica classica! Che sballo! Oggi suonano brani moderni, in vista del tour della…»

«Wow...»

«Che significa questo wow

«Significa wow. Wow è wow. Bello è bello, e fanculo è fanculo».

«Non prendermi per il culo. Questo è un wow sarcastico. Non è un wow felice. Lo sento dall’intonazione. Diamine, saprò pure riconoscere uno scarto di mezzo tono!»

«Non è un mezzo tono, razza di somaro. Ho sfiatato in minore settima».

«Si, come no…»

«Oggi c’è il mastino in sala: l’onnipotente Rettore Alexej Blaha ci fa l’onore di sedere in prima fila. Peggio che stare in carcere! Quello non ha un apparecchio uditivo, ha il radar d’attacco di un Mig! È capace di intercettare un fruscio in sala mentre suona l’orchestra e di localizzare a quale poltroncina corrisponda. Già me lo vedo, il vecchiardo. Prima si volta di scatto e ti incenerisce con lo sguardo. Domani ti convoca in sala professori e ti fa il culo a strisce».

«Dai, mica è Belzebù!»

«Peggio! Ti ricordi il primo giorno di lezione? Ci ha accolti in Aula Magna senza degnarci di un sorriso. Dall’alto del pulpito chiosava: “Signore, signori, la musica è l’estrinsecazione della voce di Dio messa a sistema”. Poi ha aggiunto che nel suo Istituto non sarebbe stato accettato niente di meno che la perfezione nell’esecuzione. Chiunque non si ritenesse degno di magnificare un brano attraverso ore e ore di studio, era pregato di accomodarsi alla porta. A Praga ci sono tanti locali underground dove fare chiasso con gli strumenti musicali. Sottoscala buoni per noi giovani smidollati, cresciuti a pane e reality show».

«E chi se lo dimentica! Una matricola osò sorridere a quelle parole, pensava fosse una provocazione artistica. Salvo che Blaha, andando via dall’aula, all’improvviso sollevò la custodia del violino e la gettò fuori dalla finestra».

«Esattamente. Per fortuna era vuota, ma è stato uno shock per la poverina. Credo abbia cambiato Istituto, è un po’ che non la vedo. Magari ora fa l’influencer di locali alla moda e alza soldi a palate pubblicando cazzate su YouTube».

«Chiamala scema. Lei si gode il successo e noi qui a schiattare in sala prove».

«Ti faccio una confidenza. Pare che il vegliardo sia il pronipote del vicedirettore artistico del Bolshoi. Il suo nome è russo, non ceco, se ci pensi».

«Bolshoi?! Quel Bolshoi?»

«Esatto, quel gioiello che sta a Mosca. L’antenato di Blaha organizzava concerti ai tempi di Stalin. Forse anche per zio Stalin e il suo entourage. Immagini le conseguenze di un’imperfezione prodotta dinanzi al Compagno Joseph?»

«Ho una mezza idea. Dalla destituzione alla deportazione in un Gulag».

«Qualcosa del genere. Blaha è cresciuto in una famiglia di musicisti di Stato. Generazione dopo generazione, tutti loro sono stati chiamati a sbalordire le orecchie occidentali con delle esecuzioni celestiali: la voce del Comunismo!».

«Mi immagino un’infanzia triste. Il povero Alexej legato mani e piedi al pianoforte, mentre i figli del popolo scendevano in cortile a giocare a pallone».

«Ma anche il privilegio di un appartamento in centro. Abitato esclusivamente dalla sua famiglia, senza condivisioni coattive gestite dal Commissario del Popolo».

«I privilegi si pagano. Sempre».

«A proposito di privilegi». Karel smorzò. «Guarda chi sta arrivando».

Lo sguardo dei due compagni – e non solo il loro – cadde su una grossa Mercedes dai vetri oscurati intenta a costeggiare il perimetro della piazza. Giunta in una zona d’ombra, la vettura accostò nell’area riservata ai mezzi di soccorso. L’autista corpulento si scapicollò per circumnavigare la vettura e schiudere la portiera posteriore. Non fece in tempo. Una ragazza graziosa sobria ed elegante discese dalla berlina con una certa fretta. L’autista si profuse in diversi gesti di scusa. Lei gli restituì un cenno cortese, proseguendo a piedi verso l’entrata del Rudolfinum, seguendo il perimetro dell’edificio.

La Mercedes ripartì pochi secondi dopo, sotto lo sguardo perplesso di un vigile urbano poco distante.

«Non ci pensare nemmeno! Quella è troppo in alto per quelli come noi» lo prevenne Karel.

«Pensare a cosa?»

«A niente, che c’è da pensare? Vedo i cuoricini di zucchero che escono dagli occhi. Mi viene il diabete a starti vicino, bleah!»

«La conosci?»

«Non di persona. Ma chi non la conosce al Conservatorio? La signorina Dagmar Kolarova. La figlia di Igor Kolarov. Il boss delle radio, dei camioncini della distribuzione alimentare, dei ristoranti tipici per i turisti, e di tante altre cose belle. Belle per la gente come loro».

«Che strumento studia?»

«Pianoforte. Secondo anno. Gira voce che quest’estate la principessa sul pisello andrà in America; farà un’audizione con il team di Hans Zimmer».

«Cosa?! Hans Zimmer? Quell’Hans Zimmer?»

«Hai il cerume nelle orecchie? Mi fai ripetere le cose, è preoccupante! Sì, il compositore crucco che fa tutte le colonne sonore a Hollywood. Secondo te è tutto merito della ragazza? Sì, certo, lei sarà pure brava, ma qui c’è gente diplomata col massimo dei voti che per sfangarla suona nelle Hall degli alberghi internazionali sperando in un’audizione seria, un giorno o l’altro. Magari Herr Hans la prende in squadra, per la gioia del Conservatorio. Affiggeranno i poster di Dagmar mentre suona assieme al fenomeno. Tutta pubblicità: iscrivetevi allocchi! Qui sudore e sangue, ma il successo è assicurato!»

Dagmar Kolarova oltrepassò la loro visuale. Puntò diritta verso un gruppetto di amiche dall’outfit simile che la attendeva nei pressi dell’ingresso del Rudolfinum. Il suo sguardo sembrava astrarsi dal resto dei comuni mortali che la circondavano.

Patrick non riuscì a staccarle gli occhi di dosso. Il giovane rimase ipnotizzato, rapito dai lunghi capelli lisci e corvini che ondeggiavano nella luce del mattino. Quella ragazza sembrava sbucata dalla pubblicità del balsamo.

«Ehi, sono qui! Pronto? Pianeta Terra chiama Frantisek, rispondete per piacere! Houston, abbiamo un problema…»

«Karel, ma hai visto quanto è bella? Gli occhi azzurri, le efelidi, i capelli scuri. E hai visto il portamento? Quando cammina sembra che leviti a cinque centimetri da terra. Avrà studiato danza classica, ci scommetto».

«Beh, si, effettivamente è una bella topa. Un po’ piatta di seno per i miei gusti, ma ha un culo niente male».

Quell’asserzione suonò una stonatura in una sinfonia di bellezza.

«Sei il solito materialista! Ti vesti come Che Guevara e non sai che c’è stata la rivoluzione sessuale! Le donne meritano rispetto, sono come noi!»

«Appunto! Tu stai mitizzando quell’atteggiata! Guarda che l’angioletto mangia rutta e scorreggia come noi! Non è che l’aria che le esce dal culo suoni la Nona di Beethoven! Svegliati, trombettiere, la tipa la dà solo alla gente del suo rango!»


[...]


In pochi minuti, il gregge di allievi riempì la sala maestra dell’Opera di Stato. Patrick si meravigliò come, istintivamente, la disposizione delle poltrone rispettasse un certo ordinamento sociale. In prima e seconda fila sedevano il Corpo Docente del Conservatorio. Il posto d’onore ubicato al centro della prima fila era da sempre appannaggio di Vecna. Seguivano gli allievi diplomandi, assisi attigui ai virtuosi che avevano agguantato il fatidico – almeno nella loro immaginazione – pezzo di carta: il diploma del Conservatorio Musicale. A seguire sedevano i nobili rampolli e qualche facoltoso studente straniero; giovani dal futuro assicurato che avevano scovato nella musica lo sfogo alla noia della propria esistenza. A metà della sala, sedevano gli allievi del terzo anno. Gli allievi Soukoup e Frantisek vegetavano in tale gruppo, la Middle Class musicale. Patrick, in realtà, si riteneva uno sfigato della Working Class, considerato come si manteneva agli studi. In fondo alla sala sedevano le matricole, i fuori corso, e i paria senza speranza; giovani senza alcun talento per le sette note, che superavano a stento gli esami in virtù dell’impegno forzato al limite del masochismo. Karel li chiamava gli infelici; gente costretta a inseguire il sogno di essere il nuovo Mozart perché sin da piccoli mamma e papà avevano intuito un’inesistente attitudine sinfonica nel pargolo, addossandogli il transfert delle loro ambizioni frustrate.

«Magari sarebbero dei grandi chef, o degli analisti finanziari cazzuti». Karel si voltò, lanciando uno sguardo panoramico verso la fonte del brusio che aleggiava in sottofondo. «Invece finiranno a suonare nei piano-bar per sessantenni. Fra poco Vecna se li inchiappetta!»

Frattanto, l’orchestra sinfonica, già schierata sul palco, si adoperava per l’accordatura finale degli strumenti, sintonizzata sul suono base dell’oboe.

Patrick a stento ascoltava il compagno. Il suo sguardo e la sua attenzione erano puntati come un mirino verso l’unico oggetto del suo desiderio, assiso pochi metri più avanti: una ragazza alta e snella riconoscibile dalla camicetta azzurra e dai Jeans griffati Dolce e Gabbana. Dagmar confabulava all’orecchio di un’amica. La postura rigida suggerì a Patrick che la sua amata si sentisse sulla graticola, incardinata a pochi passi dal temuto Rettore.

Karel avrebbe preferito sedere nel loggione dei ritardatari, ruminando assieme alle maestranze del Rudolfinum dietro le quinte. Il compagno riuscì a fatica a trascinarlo nel gregge della Middle Class. Su un punto però Patrick dovette cedere; guadagnare i posti a sedere più esterni nella fila, attigui alle uscite laterali dell’Opera. Poltroncine utili per filarsela via appena il concerto fosse terminato. Lo svantaggio di quel posizionamento tattico era l’incessante via vai dei professori, intenti a scambiarsi affettuosi quanto professionali saluti prima di prendere posto. Il che costrinse i due amici a una postura dignitosa, prima dello sbraco concesso durante l’esecuzione musicale.

Durante l’ennesimo sbuffo cadenzato di Karel, Patrick avvertì qualcosa di lieve sfiorargli la spalla sinistra.

«Buongiorno, Signor Frantisek, anche lei qui?»

«Professor Matousek!» Saltò su dalla sedia. «Mi sembrava di aver distinto la sua voce».

«E ci mancherebbe! Chi suona la tromba suona le sfumature, lo sa!» lo rimbrottò bonariamente l’anziano docente.

Patrick si aprì in un sorriso luminoso. Per lui Petr Matousek era un mito. Quell’uomo lo aveva preso in simpatia, sin da subito. Il docente aveva votato per il suo accesso al Conservatorio quale membro della Commissione di valutazione degli esaminandi. Inoltre, conosceva la sua storia personale e non perdeva occasione di rimarcare l’ammirazione per un giovane studente e lavoratore.

Matousek era visto come un alieno in quel microcosmo di tecnocrati musicali, bollato come un docente “umano” dagli allievi.Uno status guadagnato anche in ragione dell’esistenza difficile che lo aveva segnato: un giovane Petr Matousek studiava al Conservatorio quando la Capitale era stata invasa dai carri armati sovietici, nel 1968. Di giorno lavorava e al contempo si industriava per supportare la Resistenza. Di notte, si esercitava al violoncello al lume di candela, rinchiuso in una soffitta. Una leggenda echeggiava che Petr Matousek fosse amico di Jan Palach, e che fosse stato testimone del sacrificio di fuoco consumato a Piazza San Venceslao. Ciò che invece risultò archiviato fu il suo arresto, e un susseguente interrogatorio di stampo “sovietico”, consumato nei sottoscala di un palazzone di periferia.

«La musica è un linguaggio universale, Patrick» proseguì il docente. «È corretto impararne la sintassi. Ma non scadere nel manierismo. Falla sgorgare da qui». L’uomo si indicò il centro del petto. «Sempre!»

«Grazie, professore, non lo dimenticherò». Gli brillarono gli occhi.

Per un attimo, il giovane allievo notò qualcosa di diverso nell’aspetto del suo mentore. Poi, la parte emotiva prese il sopravvento comprimendo la razionalità.

«Dirige lei l’orchestra, se non sbaglio. Ho letto il programma».

«Apro io. Mi lasciano guidare l’automobile. È il mio regalo di pensionamento, gentile pensiero del Corpo Docente. Fra qualche mese mi troverai al parco a dare da mangiare ai piccioni». Tossì. «Magari mi dedicherò a scrivere delle recensioni su quei concerti che nessuno va mai ad ascoltare».

«Beh, però è una gran bella uscita di scena. Non a tutti i mortali è concesso di dirigere la Filarmonica di Stato!»

«È un sogno di bambino che si realizza. Purtroppo non ho potuto scegliere i brani. Avrei voluto suonare l’Eroica o la Pastorale, il mio piccolo omaggio al nostro amico Ludwig. Oh, di sicuro avrei fatto crollare le volte del Rudolfinum! Altro che i vostri concerti da smidollati! Due riff di chitarra e vi sentite onnipotenti!»

«Non stento a crederlo. Beethoven è puro Sturm und Drang».

«Esatto Patrick. Non farteli mancare mai. Non solo nella musica».

«E invece lei ci delizia con un brano da West Side Story».

«Non è la cosa peggiore che abbia ascoltato. È la trama che mi torce le budella: la rivisitazione yankee del Romeo e Giulietta, in chiave prêt-à-porter. Come se fosse un cheeseburger da ordinare da MacDonald».

«Ma lei frequenta i fast food, professore?»

«Oh, io frequento tanti posti. Sono sempre stato un tipo curioso».

Patrick avrebbe voluto replicare con qualcosa di spiritoso a quella frase sibillina, ma non gli sovvenne alcunché. Per sua fortuna fu salvato in corner dall’arrivo della professoressa Agneisa Sveita, docente di Storia della Musica nonché una delle massime esperte mondiali del genere Madrigale. La donna emise uno squittio ad alta frequenza per manifestare l’affetto nei confronti del pensionando.

Per un musicista, quel suono sgraziato equivaleva al rumore di un rastrello trascinato su una lavagna. Nessuno si era mai sorpreso che lei fosse single.

La donna prese sottobraccio Petr Matousek, sospingendolo dolcemente verso la prima fila del teatro, là dove gli altri colleghi lo attendevano per l’ultimo bagno di folla. Patrick lo salutò con un gesto di commiato, inchinando la testa come un karateka rispettoso del sensei.

Poi riprese il suo posto a sedere. Karel aveva osservato la scena in silenzio.

Petr Matousek si lasciò trascinare dai tentacoli della collega. Per un attimo si voltò. La luce dell’applique Art Déco posta ad altezza uomo esaltò l’aria esausta e la barba ispida appiccicata alle guance. L’uomo regalò al suo allievo una mezza strizzata d’occhio e una frase biascicata che Patrick colse al volo: «Sturm und Drang…»

Pochi minuti dopo un’austera figura dal completo démodé si levò in piedi. Quel semplice gesto dissolse l’intensità del brusio. Alexej Blaha salì i pochi gradini che lo separavano dal palco avvinto da una certa ieraticità, come fosse in procinto di celebrare una liturgia.

L’orchestra ammutolì. Non appena gli porsero il microfono, il ruggito di Vecna echeggiò in platea, magnificato dall’acustica perfetta.

«Silenzio per favore!»

Lo sguardo inquisitorio inquadrò il fondo della sala, come Karel aveva previsto. In pochi secondi, il Rettore scattò una fotografia mentale degli indisciplinati. Con un battito di ciglia, Vecna salvò l’istantanea nella memoria fotografica, abituata a dare corpo a centinaia di pagine di spartiti.

Cadde un silenzio profondo. Chi fosse stato in procinto di emettere un colpo di tosse preferì ingurgitarlo, piuttosto che produrre un suono inopportuno.

Con una calma studiata, Alexej Blaha attaccò l’omelia.

«Benvenuti! Ci troviamo in questo tempio della musica su gentile concessione dell’Orchestra Filarmonica Ceca. Il Rudolfinum ospita gli studenti del Conservatorio, affinché essi traggano ispirazione. Fate sì che questo sforzo non sia vano! La nostra Orchestra Nazionale è in procinto di partire per un tour per gli Stati Uniti. Si esibirà nei teatri delle più grandi città per sensibilizzare una civiltà non avvezza alla tradizione dei Maestri Europei. Su proposta del Ministero della Cultura, la Filarmonica alternerà dei brani classici conosciuti al grande pubblico ad alcuni pezzi di musica moderna».

Tutti notarono il brusco calo di tono caduto sull’aggettivo. Il volto di Vecna rimase imperturbabile.

«È un’iniziativa sponsorizzata dalla Commissione Europea, valida nei diversi paesi membri dell’Unione. Il fine è riavvicinare il pubblico ai Teatri Nazionali dell’Opera, dopo che l’avvento delle piattaforme musicali su Internet ha affievolito i legami tra il popolo e la grandiosità della musica».

«Perché, esiste anche la piccola musica? La musica è musica, vecchio scemo!»

Karel mormorò con un tono di voce quasi impercettibile. Patrick lo fulminò con un’occhiataccia.

«Ma prima che il concerto abbia inizio, permettetemi di salutare, a nome mio e del Conservatorio di Praga, un’istituzione nazionale: il professor Petr Matousek!»

Un applauso scrosciante si levò dalla sala e dai palchi in galleria.

L’uomo si presentò sul palco armato di una bacchetta di palissandro, ornata di due pomelli di ottone alle estremità che ne bilanciavano il peso. Intonso e luccicante, a nessuno sfuggì che quell’oggetto era un regalo di pensionamento.

Alexej Blaha riprese la parola, rubando la scena al collega. I capelli bianchi, sudati e rilucenti sotto i riflettori, si incollavano al cranio. Molti spettatori notarono la forma spigolosa del viso; la cornice di due occhi verdi penetranti.

«Il professor Matousek è lo specialista nella sezione orchestrale degli archi. Nel corso della sua carriera ha pubblicato diversi libri sulla tempistica di coordinamento di questi magnifici strumenti musicali».

A quelle parole il pensionando rispose con un inchino rivolto al pubblico.

«Oggi, eccezionalmente, il collega dirige l’Orchestra Sinfonica Nazionale in un brano musicale fresco e moderno».

«Ma se è ambientato a metà del secolo scorso! Ma di che modernità parli? Forse della tua, che vieni dal mesoz…»

Karel non completò il sibilo. Una gomitata nel costato tiratagli da Patrick lo azzittì, facendogli mancare il fiato.

Vecna avvertì che la stava tirando troppo per le lunghe. Decise di tagliare corto.

«Come vedete, è vero il brocardo che la musica ci rende giovani! Abbiatene cura!»

Il Rettore confidò in un minimo di ilarità diffusa, in risposta a ciò che secondo il suo parere avrebbe dovuto essere una battuta. Calò il gelo in sala. L’uomo discese le scale e si accomodò al suo posto, livido di rabbia. Non fece alcunché per dissimularla.

Petr Matousek salutò ancora e si accomodò sul piccolo podio riservato al Rettore d’Orchestra, dando le spalle al pubblico in sala. Non appena vi mise piede, scuotendo la bacchetta, un’ovazione sincera si levò dalla sala.

Gli orchestrali sorrisero, attendendo che gli applausi terminassero.

L’uomo si voltò, scuotendo il capo in segno di approvazione. Poi, riprese a fissare gli elementi orchestrali, sforzandosi di concentrarsi per quella sua ultima cavalcata musicale.

Le prime note di Maria echeggiarono in sala. Il pianoforte a coda lunga, accanto a Matousek, suonava la voce narrante, mentre gli archi posti alla sua destra diffondevano l’atmosfera malinconica e romantica di un innamorato rimasto solo in strada.

Il brano estratto dal musical non era tecnicamente difficile da riprodurre. L’Orchestra lo aveva provato diverse volte, sicché i musicisti avrebbero potuto coordinarsi a occhi chiusi e con l’emicrania. In gergo tecnico tale automatismo si definiva “suonare col pilota automatico”. Gli elementi orchestrali erano consci che Matousek non li avrebbe mai coordinati alla perfezione, non essendo egli un Direttore d’Orchestra. Così decisero che avrebbero simulato di seguirlo, affidandosi a uno spartito che conoscevano a memoria.

Seduti a metà della sala, due giovani allievi vivevano emozioni opposte.

Karel sprofondava nella poltroncina, con le mani giunte poggiate sull’inguine. Lo sguardo assente suggeriva una gran voglia di schiacciare un pisolino.

Patrick viveva un sogno estatico, alimentato dal connubio tra il testo del brano e la distanza sociale siderale che lo separava dalla sua musa, seduta poche file più avanti. Il giovane non poté resistere alla tentazione di canticchiare a labbra strette.

La sua mente deformò le liriche originali.

The most beautiful sound I’ve ever heard

Maria, Maria, Maria, Maria

All the beautiful sounds of the world in a single word

Dagmar, Dagmar, Dagmar, Dagmar

Patrick sperimentò un fenomeno di personificazione con il protagonista del Film West Side Story; un giovane intento a passeggiare di notte per le strade solitarie del quartiere, con un solo pensiero che egli riusciva a estrinsecare tramite il canto.

I’ve just met a girl named Dagmar

And suddenly that name will never be the same to me…

Patrick mormorava tra i denti.

Vinto dall’ossitocina, il giovane non notò come Matousek pose due volte la mano sinistra al collo, allentandosi il colletto della camicia costretto dal papillon.

Lo strattone di Karel lo riportò sul pianeta Terra; il tono di voce si stava facendo troppo sensibile per il caccia intercettore Mig-Blaha.

Maria!

Say it loud and there’s music playing

Say it soft and it’s almost like praying

Patrick imprecò tra sé, come se fosse stato ridestato da un sogno struggente. Per vincere il risentimento, si concentrò di nuovo sul brano in esecuzione, sforzandosi di analizzare il coordinamento tra gli strumenti.

Il suo sguardo puntò d’istinto verso il Rettore d’orchestra.

«Ma che…»

Le mani di Matousek mostrarono qualcosa di anomalo. In pochi quel giorno vi fecero caso. Ma Patrick aveva seguito i corsi di armonia di Matousek tutti i giorni, per un anno intero.

«C’è un lieve delay tra il movimento della spalla e le falangi» osservò. «Sembra che l’impulso elettrico non arrivi pieno dal sistema nervoso centrale alle periferiche. Ma che…»

Patrick si voltò verso Karel, come se volesse chiedere conferma alle sue supposizioni attraverso lo sguardo. Il compagno teneva la testa puntata verso il soffitto, osservando gli splendidi dipinti che ne affrescavano le volte.

«Che stupido che sono. Sarà la vecchiaia o l’emozione. Magari entrambe le cose».

Maria!

Say it loud and there’s music playing

Say it soft and it’s almost like praying

Maria

I’ll never stop saying…

Petr Matousek si accasciò sul leggio.

Un brusio si levò tra il pubblico.

L’uomo fece per rialzarsi, facendo leva con il braccio appoggiato sullo scranno. Con la mano destra, ondeggiò la bacchetta.

La Filarmonica proseguì l’esecuzione.

Per un attimo il direttore d’orchestra riprese la postura eretta. Agli orchestrali apparve diaforetico, il volto segnato dalla sofferenza.

The most beautiful sound I ever heard

Maria

Patrick si tese in avanti. Karel si risvegliò dal letargo.

Maria…

Terminò il brano.

Petr Matousek si accasciò sul lato sinistro del leggio.

La bacchetta gli sfuggì di mano, rotolando sul palco.

Poi, l’uomo rovinò sul parquet.

Il tonfo di un rintocco echeggiò tra le volte e accese le grida in sala.

Alexej Blaha fu il primo a scattare sul palco. Gli orchestrali rimasero raggelati, seduti ai propri posti.

«Fermi, non muovetevi! Niente panico!» riecheggiò la voce tirannica. «Rimanete ai vostri posti, ho detto! C’è un medico in sala?»

Accorsero due orchestrali, chinandosi sull’esanime collega. Un parlottio incontrollato si agitò nel Rudolfinum. Qualcuno fece per alzarsi e prendere le sue cose, guadagnando l’uscita. Gli addetti alla sicurezza accorsero dai loggioni per regolare l’evacuazione, timorosi dell’effetto Go-Down che avrebbe trasformato un piano di fuga in una mandria impazzita.

Patrick scattò in piedi, ponendosi con le spalle appoggiate al muro, alla sua sinistra. Conscio che, essendo il primo della fila, gli altri ospiti lo avrebbero calpestato pur di scavalcarlo. Karel lo seguì a ruota.

«Ma che cazzo succede, Patrick?!» gli chiese. «Quello è il tuo professore!»

«Non lo so!» rispose, fissando il palco. Una processione di addetti gli sfilò davanti. Un capannello di persone si formò attorno a Matousek, finché gli addetti al pronto soccorso del Rudolfinum si fecero largo a spintoni e si chinarono a prestare le cure all’infortunato.

«Sembra che abbia avuto un infarto».

«Ma non lo è».

«Come fai a dirlo?»

«Le mani. Le ho viste, quando è passato a salutarmi».

«Beh?».

«I palmi erano scuri, i polpastrelli violacei. Petr aveva la gola secca, l’ho intuito dal tono di voce. Troppo basso, ma non rauco. È sceso quasi di un’ottava. Un suono nitido, ma lo spelling delle sillabe era un leggermente impastato».

«Hai notato tutto in pochi secondi?»

«Siamo musicisti! È il nostro lavoro parlare con le note!»

«Appunto! Non siamo dermatologi. Le mani, eh? Secondo te Matousek componeva col pennino e il calamaio per sentirsi come Bach?»

«No, ma potrebbe essere un sintomo di avvelenamento».

In quell’istante un addetto al primo soccorso si erse, segnalando con lo sguardo al collega con la barella un fatto inequivocabile. Un terzo uomo mise mano al cellulare e allertò l’autoambulanza. Ma senza alcuna fretta. Tutto l’insieme suggerì una sola conclusione.

Karel e Patrick si fissarono negli occhi, sintonizzandosi sulla medesima conclusione: Petr Matousek era deceduto sul palco, a causa di un malore occorso mentre dirigeva l’orchestra. Ma aveva portato a termine l’esecuzione della partitura, come un vero direttore d’orchestra.