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Collana Nero inchiostro

Parte prima



Sarò breve.

Partendo dal presupposto che la mia vita, fino a oggi, è stata la costruzione di circoli virtuosi e in seguito il ripetersi di circoli viziosi, non potevo che ritrovarmi al Barrio.

Il Big Bang che avevo immaginato nello scomporre tutte le certezze acquisite e che avrebbe dovuto spararmi come il frammento di un’esplosione in un posto totalmente nuovo, mi aveva invece riportato alla radice di tutto.

Il Barrio, appunto.
In parte ero un uomo nuovo, nessuno mi poteva riconoscere, i vecchi giri si erano dissolti nel grande circo dei cazzi, mazzi e decessi e per quel che riguarda il parentado l'esodo si era già consumato da qualche anno.

Avevo mollato quanto di solido avessi, casa, lavoro, rapporti costruiti negli anni, luoghi tranquilli e puliti. I cani erano trapassati al loro meritato riposo e i gatti erano rimasti a segnare il territorio, incuranti delle mie evoluzioni.

Avevo regalato quasi tutto, mobili, libri, dischi, abiti e cuore e lasciato andare alla memoria qualche lustro della mia vita, esattamente come si ripone un libro nello scaffale di una biblioteca per prendere in mano quello successivo.

Con me erano partiti solo l’automobile, i vizi, roba da nostalgici più che altro, tipo bere, fumare, cercare il contatto umano diretto e qualche moneta, retaggio della buona vecchia cultura del margine di sicurezza.

Con questo bagaglio ero tornato al Barrio per ricominciare, per diventare, a tutti gli effetti, un uomo nuovo.



1.

Il Barrio, nel suo scheletro era immutato, roccaforte rimasta se stessa a dispetto del tempo, abitazioni addossate l’una all’altra, con gli stessi giochi di luce e ombra, col sole a sporgersi stiracchiato, per infilarsi nel dedalo di vie strette e togliere manciate di ombra e umidità dagli angoli. Mai visto un filo d’erba, né un fiore a terra. Nel Barrio il sole era poco e per pochi.

In un susseguirsi di lingue di pietra, la Città nella Città si sviluppava a imbuto, con una raggiera di strade che incontrava il suo fondo nella Grande Piazza, teatro di tragedie e orgiastiche gioie collettive. A partire dalla Grande Piazza, il Barrio era attraversato dai Quattro Assi, le quattro vie principali che lo dividevano in spicchi, poste in corrispondenza dei punti cardinali. Da essi defluivano vie e vicoli sempre più stretti che andavano a sfociare in piazze minori e piazzette, alcune delle quali abbandonate.

Si diceva che nel Barrio avresti potuto lanciare una biglia dall’imbocco superiore di uno dei Quattro Assi per poi andartela a riprendere in fondo alla Grande Piazza, il giorno dopo.

Erano immutati anche i punti di riferimento sensoriali, gli odori, i colori, il continuo vociare e quel senso di precarietà proprio di tutti gli agglomerati urbani, dove sei giorni su sette ci si arrangia e il settimo si ragiona su come arrangiare i successivi sei.

Il mosaico umano, invece, era cambiato, arricchito nelle varietà di linguaggi e culture, aggiornato nel trovare nuovi espedienti, stili di vita, feste religiose, modi di ammazzare.

Trovai alloggio in un lungo vicolo ombroso, parallelo all’Asse Ovest e alla metà spaccata dell’imbuto, Vico del Sole. L’indicazione in pietra che dava accesso al vicolo era stata modificata da qualche anima sarcastica, in un più realistico “Vico: del Sole neanche l’Ombra”

L’anima del vicolo erano le botteghe, che si srotolavano anguste, odorose e truffaldine, sempre piantonate da gruppetti di clienti e perditempo.

Di fronte al portone di casa c’era la bottega del Cabezon, un latino tarchiato, dalla testa enorme sovrastata da un mucchio di capelli corvini che si collegavano alla fitta barba formando un casco integrale da motociclista, e piantati in mezzo al capoccione due occhi azzurri perfettamente tondi. La bottega era una macelleria, interamente piastrellata bianca, soffitto e pavimenti compresi. Dietro alla cassa, all’altezza del banco delle carni, Cabezon aveva appeso una rastrelliera in legno, dalla quale si affacciavano una serie di armi bianche, che crescevano in misura, partendo da un Maresciall per finire con la riproduzione di una Katana.

Quando gli chiesi a quale tipo di tagli corrispondesse ogni lama lui rispose:

«Hombre, quelli non servono per la carne, quelli sono per i bastardi. Hijo de puta pequeño coltello pequeño, hijo de puta grande coltello grande»

Cabezon era stato rapinato due volte e aveva individuato il deterrente.

Fu lui involontariamente a coniare il nome con il quale mi chiamavano quei pochi che conobbi dal giorno del mio ritorno. Uscendo dal portone, una mattina, Cabezon dalla soglia della bottega mi salutò: «Hola hombre, que pasa?» e di rimbalzo un ambulante appoggiato al muro di fronte alla bottega, sfoggiando la mercanzia fece: «Hey ombra compra qualcosa eh?»

Da quel momento in poi Ombra diventò il mio nome.

Tre isolati più in basso si trovava Qualsicosa, la bottega di Scaltro.

Scaltro vendeva qualsiasi cosa, se non ce l’aveva in casa te la procurava. Era un tipo perennemente in movimento, indaffarato, amico di tutti e parente di nessuno. Pesava quarantacinque chili col cappotto bagnato e un mattone per tasca, era alto come un accendino. Scaltro era un dritto.

In fondo al vicolo, due passi prima che la strada cambiasse nome c’era la bottega del Restauratore, un uomo alto e magro, dal portamento ascetico e la parlantina avvolgente. L’insegna recitava: “Il Restauratore, di mobili e anime perse”.

Sottotitolo: “La Credenza è il centro della vita”.

La bottega si componeva di un laboratorio per il restauro di mobili antichi al piano terra e di una sala al primo piano, dove il Restauratore divulgava il suo verbo nell’improbo tentativo di recuperare le anime dissolute di quella parte del Barrio.

Dietro l’aura di santità che emanava la sua figura si celava il prototipo del venditore di mobili da asta televisiva mescolato con quello del predicatore all’americana.

Era anche uno dei pochi mercanti capaci di attirare nel Barrio clientela abbiente, proveniente dalla città fuori dal Barrio, quelli che sprezzantemente venivano chiamati “foresti”. Le due attività del Restauratore vivevano accuratamente separate in quanto a orari, per il semplice motivo che, se si fossero incrociate, una clientela avrebbe fatto scappare a gambe levate l’altra.

Tre botteghe da tenere a mente e a cuore.



2.

«Che grado di rispetto hai per le donne?»

Con questa domanda fui accolto dal Vecchio al mio ingresso nella Casa Obliqua.

Il Vecchio stava al terzo piano di questa casa di quattro piani, dei quali il quarto era cieco.

«Beh, il massimo rispetto di base, signore...».

«Vedi qualche signore in questa stamberga? Chiamami Vecchio e dammi del tu. Col rispetto per il gentil sesso ti sei guadagnato le chiavi della topaia del secondo piano, si, proprio quella che sta sotto la topaia del terzo, dove vivo io».

Cinque secondi di silenzio e poi il Vecchio proruppe in una grassa risata, mi lanciò le chiavi salendo le scale, rivolgendomi le spalle.

«Dell’affitto ne parleremo più avanti, ho un bel po’ di cose da dirti».

Quando scesi trovai il Ragazzo seduto sull’ultimo scalino di fronte al portone, intento a mangiarsi le unghie, con un’espressione torva in viso. Sembrava avere un temporale in testa.

«Ciao, Ragazzo».

Sobbalzò in maniera buffa e si girò di scatto. «Ciao, sei il nuovo inquilino?»

«Così pare».

«Hai una sigaretta?»

«Tabacco, se ti va».

«Si, va bene anche un trincio».

Lo arrotolai e glielo lanciai. «Cosa fai lì da solo? I tuoi non sono a casa?»

«No, non sono mai a casa, nemmeno quando ci sono. Hai anche da accendere?»

Gli lanciai anche l’accendino, accese e se lo intascò. Fumava senza aspirare, con un’espressione da duro che gli riusciva malissimo.

«Ragazzo, che pettinatura hai? Sembra ti abbiano spettinato con un petardo, che problemi ha il tuo parrucchiere? Epilessia?»

Rise. «Li taglio io, con la macchinetta».

«Bravo, lavoraci su. E ridammi l’accendino».

Così diventai inquilino della Casa Obliqua.

La Casa Obliqua era un condominio incastonato fra altri due, più alti di due piani, quasi a sottintendere il fatto che fosse arrivato dopo rispetto agli altri, come un fratello minore da portare in giro per il quartiere, da proteggere. Il nome non era casuale, la costruzione era veramente storta rispetto ai due fratelli maggiori, caratteristica evidente da un’osservazione esteriore, mentre all’interno sembrava perfettamente equilibrata e simmetrica. I suoi inquilini erano esattamente il contrario, anonimi e lineari a prima vista, squilibrati e fuori contesto dopo una seconda occhiata, un primo ascolto.

Il Ragazzo del primo e il Vecchio del terzo.

Punto.


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