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Collana Nero Inchiostro

1


Roma, 23 ottobre 1990

Il monumentale organo stava intonando una versione così vigorosa del Laudate dominum, che i clienti del celebre caffè dall’altra parte della piazza mescolavano il contenuto delle loro tazzine con la medesima serena maestosità che proveniva dalla Basilica di S. Eustachio.

Lo strumento era stato messo a punto a metà del Settecento da Johannes Conrad Werle, un apprezzato organaro tirolese che annoverava pochi, ma decisivi vizi: la birra e le donne. La prima gli serviva a dimenticare di aver sprecato gran parte della sua vita a fabbricare e assemblare con certosina pazienza canne, tastiere, e panconi, nel tentativo di trarre da quelle magnifiche macchine per la musica il suono più cristallino possibile. Le seconde gli ricordavano che lui stesso era una macchina vivente fatta di muscoli e voglie che dovevano trovare il loro imprescindibile accordo. Così, quando in una fresca sera d’estate la bella moglie del sindaco entrò nel suo laboratorio con la scusa di riparare un orecchino utilizzando il suo saldatore ad acetilene, il buon Johannes capì subito che era giunto il momento di mettere mano a ben altro strumento.

Ance, tasti, catenacciature parteciparono all’amplesso sobbalzando sopra al tavolo su cui giaceva distesa la donna con le gambe appena aperte come un diapason mentre accoglieva i vigorosi colpi di bacino dell’artigiano, inconsapevole che la tuba destinata all’organo a cui stava lavorando ormai da mesi si andava deformando in modo impercettibile, schiacciata sotto il peso di quei corpi impegnati in un crescendo impossibile da annotare su uno spartito. Né Johannes riuscì a collegare quella mezz’ora di passione consumata sopra il tavolo, al timbro incerto che lo strumento mostrò al momento del collaudo qualche settimana più tardi.

Cinquanta tasti, prima ottava corta e una pedaliera a scavezza di nove note. Ogni parte sembrava essere stata realizzata alla perfezione e assemblata nel modo corretto. Malgrado tutto, però, a un orecchio attento come il suo in alcune tonalità si avvertiva appena una sorta di borbottio sordo, laddove gli accordi sarebbero dovuti risuonare limpidi e ariosi come un coro di voci bianche.

Werle, alla fine, decise di metterci una pietra sopra e concluse che, con ogni probabilità, nessuno si sarebbe accorto di un difetto del tutto trascurabile, così come nessuno si era accorto della sua storia con la moglie del sindaco. La sifilide arrivò a contraddirlo riguardo alla seconda conclusione, ma rispetto alla prima ebbe ragione per un bel pezzo: nemmeno uno dei tanti rettori che si erano alternati alla guida della Basilica in oltre duecento anni si era mai lamentato dell’acustica dello strumento, almeno fino a Don Gregorio.

Il sacerdote invitò tutti a riunirsi sotto il manto della preghiera comune e il Padre Nostro volteggiò pigro nell’unica navata della chiesa. Don Gregorio amava ogni sillaba di quell’implorazione. Le voci che divenivano un monologo unico fatto di nascosti dolori e irriducibili speranze da affidare alla misericordia di Dio, un fiume fraterno che trasportava il fardello di ciascuno verso il cuore dello spirito. Il momento di scambiarsi il gesto di pace arrivò insieme alla selva di braccia protese per salutare secondo tradizione il vicino di banco.

Mancava all’appello solo la mano del vecchio signor Mantovani, che non concedeva più la sua vigorosa stretta agli altri parrocchiani da almeno due anni. Tanto era il tempo trascorso da quando qualcuno aveva fatto sparire dalla circolazione il suo amato Birillo, un persiano di cinque chili con il vizio di “farsi le unghie” sulle porte del vicinato. Da allora Mantovani era in guerra aperta con il resto degli abitanti del quartiere e frequentava la messa con il preciso scopo di capire chi avesse potuto commettere un peccato peggiore di quello di Eva nell’Eden.

La celebrazione si avviava alla fine. Il sacerdote prese la pisside con le ostie fronteggiando la fila che si era formata davanti all’altare.

La coda era ordinata e rispettava più per consuetudine che per scelta una specie di gerarchia non scritta. Le prime posizioni erano occupate dalle personalità più in vista del quartiere. Politici, in genere, qualche attore più o meno celebre, giornalisti affermati. Tutta gente che poteva permettersi di abitare in pieno centro storico e aveva ottimi motivi per ringraziare domineddio di ciò che aveva ricevuto.

Seguivano una manciata di affermati professionisti: spina dorsale economica della comunità, ma non per questo al sicuro dai piccoli scossoni creati dalla magnitudo delle chiacchiere dei salotti buoni. Infine, le persone comuni, comuni sulla carta, eppure – a giudicare dall’andirivieni nel confessionale di Don Gregorio – con il loro pesante bagaglio d’insospettabili colpe.

Prima di congedare i fedeli, il ministro ricordò che si aspettava il contributo di ciascuno per la realizzazione della pesca di beneficenza che era in programma per Natale. Gli oggetti da donare dovevano essere in ottime condizioni e, possibilmente, di un gusto che sfiorasse la decenza. Non aveva nessuna intenzione di trasformare quel piccolo evento, che richiamava un certo seguito in tutto il circondario, nella fiera del rigattiere. I fondi raccolti sarebbero serviti per completare i lavori di rifacimento della sagrestia. Un istante dopo aveva guadagnato l’uscita della chiesa dove era solito salutare e guardare da vicino quanto fosse ancora vergine la lana delle sue pecorelle.

«Magnifica omelia, Padre Gregorio! Buona domenica».

Per la signora Colasanti tutte le sue omelie oscillavano in una scala che andava dal fulgido all’esemplare fino a toccare l’apice del magnifico. In compenso suo marito si limitava a un rigido gesto del capo con cui forniva il suo immancabile assenso al giudizio della moglie, interessato com’era a raggiungere il più in fretta possibile la tavola domenicale.

«Ho chiuso le offerte nel cassetto dell’ufficio, tutto a posto!»

Maria lo faceva da cinque anni e fin dalla prima volta si sentiva in dovere di ribadirlo mentre lasciava la chiesa con tono cospiratorio.

Stretta l’ultima mano, Don Gregorio attraversò il portico che precedeva l’entrata della chiesa e diede una rapida occhiata a destra e a sinistra della facciata quasi incastrata tra il basso filare di case che arrivavano a ridosso del vicino Pantheon.

La piazzetta era avvolta in una cappa di nubi grigie come i sanpietrini che raccoglievano il marciume di foglie giallastre e fango accumulato dall’ultimo acquazzone. La brezza portava con sé il fiato umido e fresco soffiato dai polmoni di un autunno che stava piombando sulla città dopo una delle estati più calde che i romani, compresi quelli antichi, ricordassero.

Solo quando vide anche l’ultimo dei fedeli allontanarsi, il sacerdote estrasse dalla manica destra della casula una piccola fiaschetta di metallo da cui prese una sorsata di sicuro più generosa delle offerte dei suoi parrocchiani.

Non era un alcolizzato, o almeno non nella misura in cui un vizio si trasforma in una dipendenza. Amava la vita e amava Cristo, al quale aveva scelto di donarsi. Più che altro non sopportava il peso di certe domeniche fredde e vuote come quella.

Giorni in cui nemmeno la fede lo riscattava da una solitudine interiore che si solidificava come la brina sullo stipite della finestra e l’aiuto della bottiglia diventava una rassicurante pacca sulla spalla. Perché era allora che la paura di vivere si faceva sentire di più, rimbombava nel silenzio e scivolava lieve sui vetri del suo ufficio parrocchiale, dietro il quale il caos del mondo non sarebbe riuscito ad afferrarlo. La chiesa era un posto sicuro, eppure rimaneva un margine. Il deserto in cui persino Gesù era stato tentato dal demonio, laddove un servo di Dio è solo con la sua paura di non essere abbastanza uomo o abbastanza sacerdote.

Don Gregorio bevve un altro sorso veloce prima di avvitare il tappo, era ora di chiudere. Si frugò in tasca cercando il voluminoso mazzo di chiavi e cominciò ad accostare i pesanti battenti di legno che sarebbero stati riaperti solo più tardi per la funzione pomeridiana affidata al suo vice. Fu nel momento in cui serrò le due ante del portale che la vide, a pochi centimetri dalla sua faccia. Le narici gli si riempirono di un odore acre che andò a conficcarsi al centro dello stomaco con la forza di un punteruolo, provocandogli un violento conato di vomito.

Fece un balzo all’indietro e cadde seduto in terra, mentre la fiaschetta rotolava giù dalla manica scandendo con suono metallico ciascuno dei pochi gradini che conducevano all’entrata della chiesa.

Il suo sguardo tornò a posarsi con un misto di orrore e meraviglia su quell’appendice spugnosa che troneggiava al centro della porta.

Una lingua avvolta da un grosso grumo di sangue rappreso penzolava da un lungo chiodo arrugginito fissandolo come un grottesco crocifisso di carne.