CAPITOLO 1
Alzo le palpebre irritata. Ieri sera non ho abbassato bene le persiane e una sottile lama di luce mi batte sul viso. Consulto la sveglia: non sono ancora le sette. Mi giro verso Emre, e per un po' contemplo sorridendo il suo viso addormentato e indifeso. Faccio una veloce disamina del programma di oggi e comincio a riconciliarmi con la giornata pensando che Giulia ha invitato me e Melisa nella sua casa estiva nel quartiere di Yeşilköy. Per mia cognata è una sorta di rimpatrio, visto che abitava non lontano dal posto dove andremo. Mi passerà a prendere più tardi e andremo con la sua auto.
Trascorre sempre l’estate lì, Giulia, la cara vicina a cui, anche se sono più giovane di lei, mi sono affezionata molto e, benché nella brutta stagione non ci vediamo poi tutti i giorni, sapere che al piano di sotto lei non c’è mi fa sentire più sola. Da quando Emre si è trasferito da me, per forza di cose la frequento meno di quanto non facessi appena arrivata a Istanbul, quando lei era stata un importante e affettuoso punto di riferimento nel passaggio dalla realtà italiana a quella turca.
Parcheggiamo sul lungomare e Melisa, la mia quasi cognata, dato il rapporto more uxorio che intrattengo con il fratello, e quasi coetanea, data la differenza di un solo anno tra noi, nonostante venga qui per la prima volta come me individua subito la casa e me la indica. Mentre mi cammina davanti diretta all’abitazione, la guardo con affetto e preoccupazione: ha un portamento reso un po’ incerto dalla recente malattia, mentre un tempo era sicura e intraprendente.
L’edificio è a quattro piani, ricoperto di legno scuro nella parte superiore, con il tetto spiovente. Il piano terreno è seminascosto dal verde e al primo piano si scorge un’ampia terrazza. Giulia ci accoglie al cancello baciandoci entrambe con la solita cordialità. Conosce Melisa più che altro dai miei racconti, ma è al corrente della sua storia e ha esteso anche a lei il suo invito perché sa che ha ancora qualche problema e vuole essere gentile con lei. Dopo la convalescenza dalla leucemia, infatti, ma soprattutto dopo la tragica morte della madre, ha passato un periodo molto difficile che forse non ha ancora superato.
Giulia è elegante come sempre, nonostante il caldo. Non è eccessivamente abbronzata malgrado la vicinanza al mare, mantiene i suoi caratteri di pelle, capelli e occhi chiari, e indossa una camicia di lino color salmone su dei pantaloni in tinta degradante. Nonostante la differenza d’età ho sempre avuto una gran confidenza con lei, che comunque fa dimenticare in fretta le distanze anagrafiche perché ha un piglio giovanile e sa mettere l’interlocutore a proprio agio.
«Ho una sorpresa per te».
Saliamo alcuni gradini, costeggiamo la casa e arriviamo a un delizioso, ampio salotto all’aperto coperto da una pergola di vite. Il mare è appena al di là del parcheggio e della strada pedonale, dove al momento sta passando qualche sportivo, anche troppo appassionato per correre con questo caldo. Da una delle poltroncine si alza Katia, mi viene incontro di corsa e mi stringe in un abbraccio così forte, che per un attimo mi manca il fiato. Sono cosciente del fatto che l’affetto impetuoso che mi dimostra va diviso equamente col ricordo di mia madre che lei tanto amava, e che rivede in me. Più composto è il benvenuto che riserva alla mia compagna.
Non la vedevo da tanto tempo e l’incontro mi emoziona molto. Era stata lei a suo tempo a spazzare via quasi trent’anni di bugie e ad aprirmi gli occhi sulle vere cause della morte di mia madre. L’avevo addirittura odiata per questo, anche se la sua buona fede non era mai stata in discussione. È anche l’unico essere vivente che conosco (l’altro è mio padre col quale continua a essere difficile affrontare l’argomento) ad avere avuto rapporti molto stretti con la mamma, e in definitiva le voglio molto bene perché molto ne ha voluto a lei. Ha sempre i capelli corti e di un castano un po’ troppo scuro, come la ricordavo. Anche il vestito a grandi rose, il rossetto e lo smalto sul fucsia sono un po’ troppo vivaci per la sua età, certamente ben oltre i cinquanta.
«Quando sei arrivata? Ti credevo sempre in Svizzera!» le chiedo appena ci siamo accomodate.
«Avevo qualche problema con le tasse, dovevo dare un’occhiata alla casa… Se proprio devo dirla tutta, avrei potuto benissimo sistemare le cose dalla Svizzera. Intendiamoci, io lì ci sto benissimo: mia figlia abita vicino a me, ho una bella casetta sul lago, verde, pulizia e ordine, ma se non vengo a bagnarmi i piedi nel Marmara ogni tanto, sto male. Mi viene l’allergia, mi manca il fiato, mi viene la depressione…» Siccome è evidente che si sforza di pensare ad altre calamità da astinenza da Turchia, la fermo assicurandola che abbiamo afferrato il concetto.
«Anche tua madre mi diceva sempre che sono esagerata. Lei era così sobria, così equilibrata quando eravamo amiche e abitavamo vicine. Le nostre case non sono poi molto distanti da qui. Finché… finché non si è sposata con tuo padre».
Giulia interviene precipitosamente:
«Che Lisa ama moltissimo».
«Certo… certo ma, insomma, ognuno è fatto a modo suo, e lei mi voleva bene così com’ero e sono». La frase è una captatio benevolentiae che io colgo al volo:
«E ti amo moltissimo anch’io».
Nel frattempo ci siamo sedute a un tavolinetto e mi guardo attorno con calma. Siamo circondate da enormi fiori e foglie di acanto verde scuro che crescono lungo il muro. La ringhiera si affaccia su un cortiletto sottostante, poi il parcheggio, una stradina, i frangiflutti e infine il mare.
Qui tira un venticello piacevole e mi viene voglia di accomodarmi, di adagiarmi, di allungare i piedi sul tavolo quasi fossi a casa mia. Ma a casa mia non sono, e quindi mantengo un atteggiamento decoroso, anche se rilassato. Intanto Giulia cerca di intrattenere la mia compagna.
«Cara Melisa, sono così felice di vederti finalmente guarita. Non ci conosciamo molto, ma ho seguito la tua malattia passo passo attraverso i resoconti di Lisa. Ti vuole molto bene ed era sconvolta quando eri in pericolo di vita. E purtroppo hai avuto anche la tragedia della tua mamma per cui ti faccio le mie condoglianze».
Melisa ringrazia con calore, ma vedo che si sta sforzando: c’è qualcosa che non va. È poco più giovane di me, castana come me, carina senza essere bellissima, indossa un vestito al ginocchio di lino chiaro scampanato che le dà un’aria da ragazzina, ma i suoi grandi occhi sono velati. La cosa mi meraviglia perché per tutto il tragitto abbiamo chiacchierato piacevolmente e stava benissimo. È ufficialmente guarita, i controlli confermano che non c’è più patologia, ma io sono terrorizzata ricordando la sua grave malattia, e ogni minimo segno di malessere mi mette in apprensione. Katia ha una conoscenza più superficiale della situazione, ma si aggiunge con trasporto sia alle congratulazioni che alle condoglianze.
«Cara Giulia, come te la passi qui? A Sant’Antonio ci manchi!» dico rivolta alla padrona di casa.
«Un po’ mi riposo, un po’ mi annoio, faccio qualche passeggiata sul lungomare e leggo molto per passare il tempo. E poi ci sono questi lavori che stiamo facendo al piano di sotto. Dopo il terremoto abbiamo rimandato di anno in anno, ma ora finalmente ci siamo decisi a rinforzare le fondamenta perché purtroppo, come sapete, un altro può arrivare all’improvviso. Oggi ho pregato gli operai di non venire perché aspettavo voi e per un giorno volevo salvarmi dai rumori e dalla polvere». La conversazione procede serenamente mentre sorbiamo un aperitivo. Katia ci racconta con orgoglio della figlia che ha sposato un ricco uomo d’affari di origine italiana. Ci accenna anche ad implicazioni ebraiche nelle origini del genero che non capiamo bene, ma nessuno ha voglia di approfondire l’argomento.
«Se non sbaglio, Lisa, anche tuo padre aveva ascendenti ebrei. È forse questa la ragione per cui è fuggito in Turchia?» chiede Giulia.
«No, lui è nato alla fine della guerra ed è arrivato qui negli anni sessanta, e solo perché aveva ereditato la quota di una fabbrica da suo zio. Comunque sì, sua madre era di una nota famiglia ebrea, i Morpurgo, ma è morta prima che nascessi, mentre mio nonno era cattolico». Giulia ci salva dalla noia degli alberi genealogici riferendoci qualcosa delle sue amiche rimaste in città a cui telefona spesso. Io gradisco il cambio di argomento e parlo del mio compagno Emre e della mia prossima partenza per l’Italia. Melisa, però, non sembra incline a chiacchierare.
È cambiata dopo la leucemia che l’aveva colpita. La crisi seguita al trapianto, e soprattutto la morte violenta di sua madre, che aveva ammirato moltissimo tanto da seguirne in qualche modo la carriera - psicanalista clinica la madre, psicologa la figlia - hanno lasciato il segno. Mi dispiace vedere depressa proprio lei che ho sempre ammirato per le sue risorse interiori e per il suo coraggio, anche nei momenti peggiori. La tengo d’occhio senza darlo a vedere e noto che ha uno sguardo strano, o meglio, allucinato.
Katia è in bagno e Giulia è andata a controllare la preparazione del pranzo.
«Melisa che hai?» chiedo preoccupata e dispiaciuta. Vorrei che Melisa rispondesse con un minimo di partecipazione alla gentilezza di Giulia e invece la vedo stranamente distaccata e quasi estranea.
«Niente, niente…» cerca di minimizzare lei, tornando in sé come testimonia il suo sguardo ridiventato normale. Ma una lacrima, che spunta fugace all’angolo dell’occhio, mi informa che qualcosa c’è, eccome.
«Melisa, parla liberamente, Giulia e Katia sono buone amiche, non devi preoccuparti per loro!»
Come se si fosse aperta una cateratta, le lacrime cominciano a scendere copiose e irrefrenabili.
«È ancora quello!» esclama sconsolata incapace di opporsi a ciò che le sta succedendo.
«Oh Dio no! Melisa, vuoi dirmi che stai vedendo qualcosa proprio ora?»
Il suo silenzio sconsolato conferma, purtroppo, il mio sospetto. Durante la malattia, che l’ha spinta fino al coma, la sua sensibilità ha ricevuto uno scossone sconvolgente, e, quando alla fine ne è uscita, ha cominciato a essere disturbata da sogni premonitori e, a volte, da confuse visioni, anche a occhi aperti.
Una volta mi ha telefonato alle sei di mattina dicendomi di correre a controllare il fornello in cucina senza, per l’amor di Dio, accendere la luce. Ci ero andata per non dilungarmi a discutere e tornare in fretta a dormire, e aprendo la porta ero stata assalita da un forte odore di gas che si era rivelato provenire da una falla nel tubo. In un’altra occasione, in cui eravamo andate insieme in un ufficio comunale per richiedere qualche documento, aveva mostrato grossi problemi nell’entrare in una stanza che, diceva, era piena di sangue. Un usciere chiacchierone ci disse poi che qualche anno prima era stata teatro di un delitto. Un pazzo aveva accoltellato l’impiegato che gli poneva delle difficoltà esagerate nel rilascio di un documento. Quella volta pensai che di un episodio del genere Melisa fosse stata al corrente, magari ne avesse letto sul giornale scordandolo in seguito. Al momento fui inorridita dal crimine ma, quando uscii dall’ufficio mezz’ora più tardi dopo aver discusso con un impiegato idiota che, in nome di regolamenti assurdi, aveva disconosciuto i miei diritti più elementari, ebbi un fremito di comprensione per l’assassino.
Anche in un’altra occasione questo dono si era dimostrato utile perché Melisa mi aveva fatto ritrovare un borsellino perduto descrivendomi un negozio dove ero stata da sola e di cui mi ero totalmente scordata, e lì poi lo recuperai.
«Bene, dimmi, cosa vedi? Perché continui a fissarmi come se vedessi un fantasma?» le chiedo con tono più irritato di quanto vorrei.
Trovo già complicato gestire sentimenti e sensazioni consueti, figurarsi quanto sono allergica a contesti così innaturali, a essere in balia di forze così sconosciute. Nemmeno Melisa è entusiasta di questa situazione e restituirebbe immediatamente questi doni al mittente, se solo sapesse che indirizzo mettere sulla busta.
«Mi sembri un uomo un po’ grasso… col cappello... vestito di nero, hai qualcosa di familiare», risponde con aria sconsolata.
Mi alzo stizzita. Non ho nessuna inclinazione a fare la Whoopi Goldberg della situazione e mettere a disposizione il mio corpo per dare ospitalità a un inedito Sam vestito di nero e col cappello.
«Cosa avrebbe fatto quest’uomo?» chiedo sedendomi sulla sedia accanto.
«Non lo so, io semplicemente lo vedo, ma… sotto… quando ho guardato nel cortile di sotto ho sentito che lì è successo qualcosa… tu… no… l’uomo vestito di nero c’entra solo in parte».
Tiro un sospiro rassegnata: come faccio a parlare alle altre due brave donne di una idiozia del genere? Dividere con me la confidenza su quanto le sta succedendo ha fatto bene a Melisa, che finalmente incomincia a ricomporsi. Quando le nostre amiche tornano dalle loro rispettive destinazioni il suo viso ha perso l’aria allucinata che lo sconvolgeva, ha ripreso un po’ di colore, e vi aleggia addirittura l’ombra di un sorriso.
«Mi fa piacere vederti sorridere Melisa, so che per te è un periodo difficile. La perdita di una madre è terribile sempre, nel tuo caso, poi, è anche peggio. Ti sei trasferita a Levent, ma prima so che vivevi qui vicino ed eravamo komşu, almeno d’estate» esordisce Giulia arrivando sorridente. I levantini introducono spesso termini in greco, turco o francese quando parlano in italiano: in Italia un vicino di casa può essere un perfetto estraneo, in Turchia un komşu è quasi un parente.
«In effetti, sono tornata alla casa che abitavo da ragazza e amo molto Levent. Nel periodo in cui sono stata qui, però, ho fatto in tempo ad affezionarmi anche a Yeşilköy e ora mi manca, specialmente d’estate, perché qui c’è il mare. Questa casa è molto piacevole. Stamattina in città si boccheggiava eppure qui si sta benissimo, tira perfino un po’ d’aria fresca. Tanti ospiti avranno gradito la tua ospitalità e saranno venuti a trovarti qui».
Ammiro l’abilità con cui Melisa sta tirando Giulia nel suo terreno.
«Adesso non c’è un grande andirivieni; più che altro vengono i nostri figli e nipoti, ma quando ero piccola avevamo anche personaggi importanti che venivano a trovare mio padre».
«È molto tempo che possedete questa casa?» riprende Melisa.
«Sì e abbiamo motivo di ritenere che anticamente fosse un convento. Abbiamo trovato…»
«Dicevi degli ospiti», la richiama un po’ troppo bruscamente mia cognata.
«Oh sì!» esclama Giulia che ama molto parlare della sua casa, «qui sono venute persone anche piuttosto conosciute, ma il mio preferito resta Roncalli, che poi sarebbe divenuto Papa Giovanni XXIII. Sedeva abitualmente proprio lì, dove adesso si trova Lisa… ah no, ti sei spostata. Dov’era seduta prima: quello era il suo angolo preferito. Gli piaceva sedersi lì a guardare il ma…»
«Ma non portava... le gonne?» incalza Melisa, che ha fretta di sapere e non perde tempo a cercare nel suo vocabolario mentale termini sofisticati tipo “tonaca”.
«Certo che no!» risponde Giulia sorridendo, «era vietato circolare con divise religiose, e, a quanto ne so, lo è ancora. Indossava normalissimi abiti da uomo di colore nero. È stato delegato apostolico qui dal '35 al '44 e poi è stato un grande Papa. Aveva una figura molto bonaria e paterna…»
«Lo so, lo so», esclama Melisa pensierosa.
«Ah! Conosci il nostro Papa?» chiede Giulia con un largo sorriso contenta che Melisa, seppure musulmana, mostri conoscenza dell’augusta personalità cattolica, nel frattempo arrivata addirittura alla gloria degli altari.
«Naturalmente, lo incontro ogni volta che vado a trovare Lisa davanti alla chiesa di S. Antonio!» ribatte mia cognata.
«Ah, è vero! Avevo dimenticato la statua, d’altronde era molto amato anche qui, ma ora è passato tanto tempo. Tutti lo adoravamo. Aveva una figura caratteristica che mi pare ancora di vedere in controluce. Io ero piccola e mio fratello lo ricorda meglio di me, ma anch’io ho alcuni flash della sua figura. Indossava il cappello anche quando sedeva qui con noi».
Mi muovo un po’ imbarazzata sulla poltroncina di vimini che geme sotto di me.
«Prego, accomodiamoci!» ci invita Giulia, «credo sia pronto».
Ci spostiamo al tavolo apparecchiato lì vicino, dove due cameriere ci servono un pasto impeccabile. Melisa ha recuperato la sua compostezza e conversa amabilmente con le due donne conquistando la loro simpatia. La mia partecipazione è invece più stentata perché non riesco a non pensare a quanto lei mi ha detto e ai riscontri che ha sembrato trovare nelle risposte di Giulia. Anche se mi irrita tutto quello che ha a che fare con le sue visioni, la curiosità ha il sopravvento in me.
«Prima Melisa ti ha interrotto», intervengo rivolta a Giulia, «ma stavi raccontando delle cose interessanti sulla storia di questa casa, parlavi di un convento?»
«Sì, abbiamo trovato una croce in pietra insabbiata proprio davanti al nostro moletto».
«Ma al piano di sotto che c’è?» insisto.
«Attualmente un disastro pieno di pietre, calcinacci e cemento. Da due giorni non scendo giù, ma mio fratello, che si occupa dei lavori più di me, dice che hanno cominciato a demolire una parete che dà sul retro in modo da consolidare meglio le colonne portanti».
«Tu credi che potremmo vedere lo scantinato?» provo a chiedere.
«Lisa, cara, c’è ben poco da vedere oltre ai calcinacci», ribatte Giulia.
«Non dimenticare che Melisa e io siamo rispettivamente sorella e quasi moglie di un architetto e i calcinacci sono per noi pane quotidiano!» incalzo io, che non so trovare una scusa decente per fare una capatina al piano di sotto.
Giulia, che si è fatta improvvisamente seria, cerca di nascondere il suo stupore alla mia insistenza e poi, con un sorriso, riprende:
«Se ti piacciono te ne offrirò a sazietà più tardi», risponde, «ma per ora prendiamo il gelato, che almeno è più morbido!»
Melisa non ha detto nulla ma, guardandola, noto che è tesa e mi chiedo se in lei è più forte la curiosità di saperne di più o il timore di un’esperienza spiacevole.
Cerco di rilassarmi tornando a un po’ di pettegolezzo, che ascolto quasi sempre con piacere, in attesa di immergermi nel mistero che l’atteggiamento di Melisa mi ha annunciato al piano inferiore. Finalmente arriva il momento di scendere e Giulia non sa reprimere un leggero sospiro prima di alzarsi dalla poltroncina. Katia ci dà la sua benedizione aggiungendo che, se vuole vedere delle rovine, le basta guardarsi allo specchio. Melisa ha un’espressione sempre più tesa e ci segue come un automa.
Scese le scale, arriviamo in una stanza abbastanza grande il cui soffitto è sostenuto verso le finestre da due grosse colonne congiunte ad arco. Al centro c’è un imponente cumulo di calcinacci. Sulla parete di destra campeggia un grande camino a mattoni, e parte delle pareti sono coperte di piastrelle blu di Kütahya. Una porta si apre sul cortiletto che avevamo visto da sopra, e Giulia ci spiega che un tempo il mare arrivava a lambire la casa e ci mostra una scaletta con un predellino di cemento. Lì attraccava la barca che nei mesi invernali veniva poi portata all’interno dello scantinato, esattamente là dove adesso si trova il mucchio di pietre. Io seguo Giulia da vicino e cerco di ascoltare con attenzione le sue spiegazioni lasciando così libera Melisa. Non oso guardarla in faccia ma, non sentendola più muoversi, mi giro a cercarla. È china e appoggiata al muro con una mano, mentre ha portato l’altra al viso.
Le corro vicino impensierita e le metto un braccio intorno alle spalle. Ha la fronte imperlata di sudore e il respiro affrettato.
«Oggi fa molto caldo!» dico rivolta a Giulia che sopraggiunge preoccupata.
Dopo aver chiamato invano la cameriera che non ci sente dal piano superiore, mi precipito su a prendere un bicchiere d’acqua, affidando Melisa a Giulia. Ne adopero un po’ per farla bere e un po’ per bagnarle il viso. Nel frattempo, do un’occhiata in giro. Mia cognata è appoggiata alla parete esattamente là dove i picconi hanno aperto un grande squarcio. Guardo al di là e qualcosa di giallo fra la polvere mi colpisce.
«Vieni, Melisa, andiamo su, qua è caldo e manca l’aria. Ti sentirai subito meglio», dico mentre appoggio il cellulare su una mensoletta grigia di polvere.
«Sì, andiamo», dice lei cercando di ricomporsi, e sale le scale incerta, ma rifiutando il nostro aiuto.
Sopra si riprende immediatamente e, dopo essersi seduta, riguadagna colore e presenza di spirito. Dopo un po’, quando mi sono assicurata che il malore è passato, le chiedo:
«Melisa, ho dato a te il mio cellulare?» Incomincio tutta una pantomima in cui arrivo addirittura a far suonare il cellulare al piano di sotto, rifiutando l’aiuto della cameriera che Giulia vorrebbe mandar giù a prenderlo.
Ritorno nello scantinato, questa volta sola e libera. Mi precipito su quello squarcio vicino al quale si era appoggiata Melisa e, messa la mano all’interno non senza qualche difficoltà, recupero un pezzo di stoffa gialla. È di cotone di grana grossa e bordata di cuoio. Sembra la ribalta di una borsa da donna. Su quella che appare essere la parte interna è stampato chiaramente un nome: Lisa Morpurgo.