Collana Nero Inchiostro
Il telefono squillò, ma la vecchia che se ne stava in poltrona restò indifferente.
«Signora, risponda», urlò Michele dalla cucina. Il telefono squillò ancora, a intervalli regolari. Michele ripeté l’invito, alzando la voce: «Risponda, che io devo mescolare il suo semolino, altrimenti s’attacca al fondo della pentola».
All'ennesimo trillo, s’arrese. Mollò il cucchiaio, abbassò la fiamma e sbuffò, prima di presentarsi al cospetto della signora con un'aria severa ma non troppo. La vide intenta a giocherellare con l'apparecchio acustico. «Ma no! Non è una pallina». Con la pazienza che all'anziana era nota, le sistemò il dispositivo, ricevendo un sorriso inebetito e una domanda: «Ma non sente che sta suonando il telefono?»
Michele trattenne lo sbuffo e afferrò la cornetta. «Pronto».
«Buongiorno, scusi il disturbo» mormorò una voce garbata. «Mi hanno dato questo numero dicendomi che, verso mezzodì, avrei trovato il signor Gramigna».
«Sì, sono io: Gramigna».
«Piacere, Gramigna anch'io».
«Com'è possibile?»
«È possibile sì. Crede mica di essere l'unico Gramigna su questa terra?»
La domanda colse impreparato Michele, che non ebbe una risposta pronta, anche perché distratto dalla signora che continuava a chiedergli: «Chi è? Chi è? Chi è?»
Avrebbe potuto lasciare che la vecchia continuasse a formulare la medesima domanda, facendo come se niente fosse, ma non gli andava di essere scortese con quella signora alla quale, ormai da tempo, prestava servizio volontario, sia all'ora di pranzo che per cena, una vecchia rimasta presto vedova e, negli ultimi mesi, colpita da quei problemi che sono proporzionali all'avanzamento dell'età. Non che non fosse autosufficiente, ma aveva capito, Michele, che a lei faceva piacere una qualunque compagnia durante i pasti, tanto più se la compagnia in questione era anche in grado di prepararle una minestra, un semolino, un'insalata sminuzzata, un arrosto, un pezzetto di bollito... E Michele, come la gran parte degli scapoli, in cucina se la sapeva cavare. Pensionato da poco, aveva energie da mettere a disposizione a quella che considerava fantasiosamente la “mamma potenziale”, perché in gioventù suo padre, prima di fidanzarsi e poi di prendere in moglie quella che sarebbe diventata la madre biologica, aveva nutrito una simpatia per lei.
Cosa portò alla fine del fidanzamento non è mai stato chiarito. Che fosse colpa più dell'uomo che della donna, lo si potrebbe giustificare con le continue frequentazioni di Michele in casa della vecchia, come se egli volesse in qualche modo sdebitarsi di responsabilità appartenute al genitore oltre sessant'anni prima. Tanto bastò, comunque, per indurre Michele ad aiutare la signora, nei rituali del pranzo e della cena.
Fra quelle misere stanze, ormai, si muoveva con disinvoltura. E, nell'attesa che il fornello facesse il proprio dovere, si preoccupava di spazzare, togliere ragnatele, rassettare il rassettabile, così da alleggerire perfino il compito della donna delle pulizie. Che, trovandosi il lavoro svolto, trascorreva in piacevoli letture di riviste femminili gran parte del tempo che, invece, avrebbe dovuto impiegare con scopa, strofinaccio e olio di gomito. Con la sostanziale differenza che lei si faceva pagare, lui no. Niente. Puro spirito di servizio a favore di quella vecchia che continuava a chiedere: «Chi è? Chi è? Chi è?»
«È un signore che si chiama Gramigna» rispose Michele.
«Gramigna... Gramigna... non è un nome nuovo».
«Non è nuovo no! Anche io mi chiamo Gramigna».
«Giusto». Non perse l'aria interrogativa, ma sembrò comunque persuasa. In ogni caso, gli consentì di dare finalmente soddisfazione all'interlocutore.
«Mi scusi, sono piuttosto indaffarato a quest’ora».
«Si immagini. Vuole che la richiami più tardi?»
«No, no. Mi faccia solo abbassare la fiamma sotto il semolino e sono da lei».
Pochi istanti dopo, tornò. «Eccomi».
Dall'altra parte la gentile voce di un signore che disse di chiamarsi Cosimo. «Non le faccio perdere tempo, signor Michele, perché ho capito che è impegnato. Mi preme semplicemente farle una proposta».
«Certo, grazie. Le dico subito, però, che non ho intenzione di cambiare compagnia telefonica, che la bolletta del gas soddisfa pienamente le mie aspettative, che non ho canali televisivi a pagamento né li voglio avere in futuro, che non bevo vino e che l'olio me lo porta un amico dalla Liguria».
«Ma io non vendo niente».
«Ah, bene. Mi scusi, ma di solito a quest’ora le telefonate sono quasi esclusivamente di gente che vuole vendere qualcosa, sottoporre contratti eccetera. Quando sono a casa mia, per carità, dialogo ben volentieri con questa gente che lavora nei call center, perché capisco benissimo le loro difficoltà, ma quando a casa mia non sono, come ora, mi spiace tenere impegnata la linea telefonica di una signora che il telefono dovrebbe averlo a disposizione. Non so se mi sono spiegato».
«Sì, certo, ho capito. D'altronde anche io faccio un po’ come lei: non liquido mai la conversazione con chi mi propone qualcosa. Lo fanno per lavoro, staranno faticando come quasi tutti quelli che lavorano. Mi immedesimo in loro, nei loro contratti precari, nelle loro preoccupazioni quotidiane. Avranno anche loro una mamma malata, un figlio che non va bene a scuola, il mutuo da pagare, bollette in scadenza... E allora proprio non mi va di riagganciare la cornetta».
La premessa dedicata ai dialoghi con i lavoratori dei call center portò via qualche minuto. Venne interrotta all'improvviso da Michele: «Signora, non è una pallina! Si metta l’apparecchio acustico!»
La vecchia lo guardò perplesso. «Nell'orecchio, signora, nell’orecchio. Mi scusi, signor Cosimo, un attimo». Ritornò all’interlocutore con un sospiro di sollievo. «Ecco, adesso sono da lei. Ho approfittato anche per mescolare il semolino».
«Certo, la capisco. Ma guardi che, se la disturbo, posso richiamare».
«No, no, ci mancherebbe. L’apparecchio acustico della signora è esattamente dove dovrebbe essere e la fiamma è abbassata a sufficienza. Sono tutto suo. A cosa devo la chiamata?»
«Intanto le premetto che ho avuto questo numero di telefono da un signore che si chiama Gramigna e che credo sia un suo parente alla lontana: Giacomo».
«Ah, Giacomo. Sì, sì, è un cugino che non vedo da tempo. Come sta?»
«Non sono riuscito a fargli una diagnosi attraverso la voce».
«Ah, giusto. È un caro ragazzo».
«Al signor Giacomo ho rivolto il medesimo invito che sto facendo a lei. Lui dovrebbe partecipare, mi auguro di poter contare anche sulla sua presenza».
«Cosa le ha detto, Giacomo, di me?»
«Che a mezzogiorno l’avrei trovata a questa utenza telefonica. E che avrei potuto chiamare».
«Sì, certo. Giacomo... ci siamo sentiti per Natale, lo sa?».
«No, in realtà non lo so».
«Ma non mi ha ancora detto il motivo della sua telefonata».
«Se non mi fa altre domande, le spiego tutto».
«Un attimo che controllo il semolino. E sono da lei».
Sbrigata rapidamente la faccenda in cucina e accontentata la vecchia che continuava a ripetere «Gramigna non è un nome nuovo», Michele prestò orecchio a Cosimo che, finalmente, poté sintetizzargli una questione che, conclusa la telefonata, Michele raccontò alla signora affondata in poltrona.
«Il signore mi ha invitato in un posto che si chiama Casolari Diabete. Lo conosce?»
«Mai avuto il diabete, io» disse lei, quasi piccata.
«Casolari Diabete è una frazione di Benello Monferrato, che sta in Piemonte. Conosce?»
«Piemonte... dove c'erano i Savoia».
«Sì, anni fa. Non ci sono più, signora».
«E dove sono andati?»
«Non lo so, ma non è questo il problema. A Casolari Diabete, frazione di Banello Monferrato, abita Cosimo Gramigna, che è il signore che mi ha telefonato».
«Gramigna non è un nome nuovo».
«Infatti! Cosimo Gramigna sta cercando persone che si chiamano come lui. E le invita a una grande festa che si svolgerà il prossimo 25 luglio a Casolari Diabete».
«Che si chiamano come lui?»
«Certo».
«Non saranno in tanti a chiamarsi Cosimo».
«Non devono chiamarsi Cosimo! Si devono chiamare Gramigna».
«Gramigna... Gramigna... Non è un nome nuovo».
Esausto come se stesse scalando il Pordoi con una Graziella, Michele cercò di spiegare cosa sarebbe successo il 25 luglio a Casolari Diabete.
La vecchia dimostrò di capire quando chiese: «E chi mi fa da mangiare quel giorno se lei va in ‘sto posto del Piemonte dove non ci sono più i Savoia, ma tutti quelli che si chiamano Gramigna e che provengono da ogni parte del mondo?»
Michele, colto di sorpresa, non seppe rispondere. Pensò un istante, poi disse: «Non si preoccupi, troveremo una soluzione».
La vecchia non fu persuasa: «Eh no, il semolino come me lo fa lei, non è capace di farmelo nessuno».
Alla parola fatale, Michele Gramigna scattò come una molla verso la cucina. Trovò un pentolino rovesciato, puzza di fumo e, sul pianale, una sostanza magmatica di dubbio colore ma di chiara provenienza. L’uomo tornò dalla vecchia e le chiese: «Signora, che ne dice di una bella insalatina tenera?».
Non fosse che la conversazione telefonica tra i due Gramigna era durata una ventina di minuti, complici anche alcune inutili domande di Michele e reiterate interruzioni di una vecchia che, quando non giocherellava con l'apparecchio acustico moltiplicava quesiti senza significato, probabilmente Cosimo avrebbe spiegato al suo interlocutore i dettagli dell’iniziativa che aveva architettato per portare a Casolari Diabete la gente che aveva il suo stesso cognome. Gente come Ernesto Gramigna, al quale bisogna attribuire almeno un po’ di responsabilità, o forse di meriti. Giudicherà ognuno.
Si incontrarono in una mensa allestita sotto un tendone di fortuna. Attorno a loro, macerie lasciate dal sisma che, il 24 agosto, ovvero pochi giorni prima, aveva raso al suolo buona parte dell'Alta valle del Tronto, uno spicchio d'Italia di paesi dall'atmosfera medioevale e di borgate isolate, di allevamenti e turismo di seconde case. «Io non sapevo che l'amatriciana si chiama così perché arriva da un posto che si chiama Amatrice» disse Cosimo alla moglie Alma, mentre stava preparando un minimo di bagaglio da portarsi appresso.
«Già che vai, chiedi anche se l'amatriciana si fa col guanciale o con la pancetta» mormorò lei, accarezzando il viso di quell'uomo che, come altre volte, si sarebbe aggregato al gruppo di Protezione civile per portare conforto, o comunque qualche aiuto, a gente rimasta, d'improvviso senza casa, senza affetti, senza nient’altro che una solidarietà diffusa destinata però ad affievolirsi nel giro di qualche settimana, cioè con l’esaurirsi dell'onda emotiva sospinta dai mass media.
«Per quanto vi fermerete, stavolta?» chiese Alma.
«Non lo so, vedremo. Ho l’impressione che ci sia molto da fare».
La donna ripeté ammonimenti che Cosimo ascoltò pure in tutte le altre occasioni analoghe, a cominciare da «non sudare» per arrivare a «cambiati la biancheria di sotto almeno una volta al giorno».
A Casolari Diabete sapevano che, in caso di terremoti, alluvioni o catastrofi del genere, avrebbero fatto a meno per un po’ della presenza di Cosimo Gramigna, tessera numero 3 della Protezione Civile Provinciale, non perché fosse arrivato per terzo al momento dell'iscrizione, ma perché acveva lasciato la numero 1 a un sindaco che, un’ora dopo, aveva cominciato a disinteressarsi del gruppo di volontariato, e la 2 a un tale che disse che quello era il suo numero fortunato. Sarebbe morto, il poveretto, volando con la bicicletta da una scarpata, dopo avere bruscamente sterzato spaventato dalla presenza di un gatto nero che stava passando sotto una scala da imbianchino.
Con la sua tessera numero 3, le scarpe antinfortunistiche e una divisa che ne aveva ormai viste di ogni, Cosimo Gramigna salì sul fuoristrada guidato dall’amico Sergio, uno che con la Protezione Civile si era fatto conoscere anche nel mondo della finanza di basso cabotaggio, e, aggregato alla colonna mobile regionale, raggiunse Amatrice, in provincia di Rieti, dove il Lazio profuma d’Abruzzo.
Ernesto lo trovò una sera. Era seduto al suo fianco, primo di una decina di alpini veneti che cominciarono a cantare quando venne servito il salame e smisero un paio d'ore dopo l'ultima grappa, quando il loro capogruppo disse: «In branda, che domani la sveglia è alle sei. E mi raccomando, fatevi passare la sbornia che poi vedete dritto anche quel campanile che, da quando c’è stato il terremoto, pende tutto da una parte».
Va bene che si è in mezzo a lutto e devastazione, ma una botta d’allegria ogni tanto ci vuole, pensò Cosimo, aggregandosi a quegli altri quando intonarono La montanara, una delle hit del mondo delle penne nere. «Io la cantavo sempre con i bambini dell'oratorio» disse Cosimo a Ernesto il quale, benché affatto interessato alla questione, coinvolse il piemontese, aggregandolo di fatto tra baritoni e tenori del coro improvvisato e alimentato a grappino.
La sera successiva sarebbe accaduto qualcosa di simile se Cosimo, all'arrivo di una pastasciutta sostanziosa, non avesse detto: «Non ci siamo ancora presentati: io sono della Protezione civile del Piemonte, abito a Casolari Diabete, frazione di Banello Monferrato. Immagino lei non conosca il mio paese».
«In effetti no».
«Mi chiamo Cosimo Gramigna».
«Gramigna? Ma pensa...»
«Eh, lo so... il nome fa un po' ridere».
«No, no: è un nome bellissimo. Ce l'ho anch'io. Piacere: Ernesto Gramigna, sono veneto».
«Allora, se siamo entrambi Gramigna, possiamo darci del tu».
«Avremmo potuto farlo lo stesso».
«Saremo mica parenti? Io sono figlio di Callisto, mio nonno si chiamava Ettore Gramigna...». Cosimo iniziò ad arrampicarsi sull'albero genealogico senza mai trovare un minimo legame con Ernesto, che gli rispose sfoderando un paio di Gramigna qua e là che nulla avevano a che vedere con quelli snocciolati dal nuovo amico.
«Caspita» disse Cosimo «non avevo mai pensato che di Gramigna ce ne fossero così tanti».
«Credevi mica di averlo solo tu questo cognome?»
«No, figurati. Però al mio paese sono l’unico e non ho figli. In provincia saremo una decina, non di più».
«Ma il mondo è grande».
«E pieno di Gramigna» commentò Cosimo, finalmente sorridente dopo giorni trascorsi tra polvere, macerie, disperazione, lacrime e giornalisti in cerca di storie da raccontare a telespettatori o lettori assetati di dettagli.
Quando due persone che non si conoscono si incontrano in un viaggio organizzato, si sentono in dovere di raccontarsi dove sono stati in precedenza, spiegando nei dettagli quanto erano sorprendenti i leoni in Africa, quanto freddo faceva in Canada, quanto è vasta la Pampa argentina o quanto è buio l'interno di una piramide. Quando a incontrarsi, sui luoghi di una catastrofe, sono volontari dediti alla protezione civile, solitamente questi si descrivono vicendevolmente i posti in cui sono intervenuti. Ed è un moltiplicarsi di alluvioni, terremoti, slavine, frane, con partenza, per i più anziani, da Firenze 1966, e arrivo all’Aquila 2009, passando per il Belice, il Friuli, l’Irpinia... Il dialogo tra Cosimo ed Ernesto si discostò dal consueto, costellato non da una serie di località associate ad eventi tristemente noti, ma da una sfilza di nomi sconosciuti ai più.
«Sarebbe bello conoscere altri Gramigna» disse Cosimo.
Ernesto dapprima non parve particolarmente entusiasta, poi però, forse con la complicità di un grappino decisivo, lanciò una proposta, mai immaginando che non sarebbe caduta nel baratro: «Potresti organizzare un grande raduno».
«Raduno? Di cosa?»
«Ma come ‘di cosa’? Di tutta la gente che ha il nostro cognome».
«Il raduno dei Gramigna?»
«Esatto. Guarda che io verrò. E ci saranno anche mio fratello e mio nipote. È un Gramigna anche lui».
«E potremmo invitare anche la perpetua, quella che hai detto che si chiama Gramigna».
«Ma certo. E anche quello che fa l’arbitro di calcio. E quell’altro che si chiama Michele, quello di cui ti ho detto prima. E chissà quanti ce ne saranno ancora».
Mentre Ernesto s’avventurava in un confuso elenco di Gramigna, Cosimo già si immaginava la modesta piazza di Casolari Diabete, frazione di Banello Monferrato, affollata di gente accomunata dallo stesso cognome.