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Collana Bullet


LIBRO PRIMO

La genesi del male

Personaggi principali

Wilhelm Von Regensburg,  studioso tedesco

Dieter Schmitz,    ufficiale nazista

U Pannita Sayadaw,   guida spirituale buddista

Isoshi Hachisuka, detto Pahilō,  avventuriero giapponese



. Regno del Sikkim, protettorato britannico, tarda primavera 1947


Wilhelm von Regensburg aspira a fondo nel tentativo di iniettare aria nei polmoni sofferenti.

La fluida respirazione a cui era abituato è un ricordo sbiadito.

È infastidito, come ogni mattina. Lo sciame di api nella sua testa continua a ronzare sommesso, senza concedere tregua. A quelle altitudini l’ossigeno è merce preziosa. Non si è mai del tutto adattato all’aria rarefatta dei quattromila. Cosa che non sono riusciti a fare nemmeno gli uomini al suo seguito. Tuttavia, lasciare il luogo che così a lungo li ha ospitati continua a non essere opzione degna di nota.

Le notizie dal resto del mondo arrivano con il contagocce, incerte, in ritardo. Potrebbe anche trattarsi di storie nate attorno al fuoco di uno dei tanti bivacchi destinati ad accogliere carovanieri e vagabondi.

Grigio gargoyle senza tempo, rimane immobile sulla soglia della casupola di pietra grezza. Lo sguardo abbraccia il villaggio edificato in un’ampia conca naturale dominata da una altura a forma di cono rovesciato. Il monastero buddhista sulla sommità è lì dalla notte dei tempi, solida sentinella a guardia di segreti sussurrati dal vento. L’agglomerato è composto da solide case in pietra sui cui tetti piani è sistemato con ordine ciò che rimane di provviste e foraggio accumulati per l’inverno. Edifici abitati da individui dalle facce piatte sempre arrossate, risultato dell’incrocio tra il sangue Ladakh e quello, molto più antico, dei popoli Ch’iang.

Quei visi gli appaiono tutti uguali. Il disprezzo che prova nei loro confronti è costante sin dai primi contatti. Von Regensburg non ha mai smesso di detestare l’alone di pacifica spiritualità che permea ogni loro azione: quella gente non ha nulla a che spartire con la razza eletta. Ne è sicuro a tal punto da metterlo per iscritto. Chissà, magari un giorno riuscirà a provarlo in sedi adeguate.

L’Hindukush e le propaggini dell’Asia Occidentale non sono poi così lontane. Quando gli Ariani ne sono discesi per diffondere nel mondo il gene superiore di sicuro hanno deciso che la regione impenetrabile dell’alto Sikkim non meritasse un simile dono. Nonostante ciò, von Regensburg riconosce ai locali un ingegno e una laboriosità di gran lunga superiori a quelli, praticamente inesistenti, dei subumani conosciuti durante i suoi viaggi nel continente africano.

Sferzato da gelide raffiche ascolta il proprio battito cardiaco. L’organo pompa con vigore il sangue in circolo, fluido vettore di rinnovata e arcana energia. Si sente ringiovanire a ogni battito. La forza è un continuo divenire. È ormai pronto ad afferrare il mondo per spremerne il dolce succo come si fa con un frutto maturo.

Improvviso e maledetto, il pensiero lo assale per l’ennesima volta, dissipa l’estasi nella quale si sta crogiolando. Gli occhi si fanno simili a fessure in un blocco di granito. Il demone che alberga in lui si diverte a punzecchiarlo, gli ripropone l’annosa questione: si trova nell’unico posto rimasto sul pianeta a custodire quanto ha cercato con tenacia e dedizione, ciò che ha cambiato per sempre la sua esistenza. Ma a cosa è servita tanta ostinazione? Non vuole accettare l’unica risposta che gli appare possibile: a nulla!

L’andamento incerto del conflitto ha confinato lui e la sua squadra in quell’ombelico di mondo senza restituire certezze sul futuro. Non può essere, non è giusto. Serra le mandibole. Combatte dubbi e incertezze. Inforca con gesto rabbioso gli occhiali tondi dalle spesse lenti scure. La fotofobia causata da un cherotono ereditario si è arrestata nel tempo, a mano a mano che l’assunzione di tisane e infusi è divenuta una vitale abitudine. La pratica, di contro, ha prodotto un fastidioso effetto secondario: l’insorgere di una lacrimazione elevata che provoca un prurito insopportabile. La protezione, allo stato attuale, non serve più a ripararlo dalla luce. Piuttosto, in qualche modo riesce a diminuire il pizzicore. Quale che ne sia la causa, è al di là della sua comprensione.

Per stemperare la tensione che lo ha attanagliato si dedica alla contemplazione dei pianori erbosi che si estendono in ogni direzione, punteggiati da bassi arbusti di rododendri e ginepri. I locali praticano un’agricoltura semplice, unica fonte di sostentamento assieme all’allevamento di bovidi. Gli appezzamenti sfruttati costituiscono un’infinitesima parte di quanto messo a disposizione da Madre Natura.

In lontananza le vette innevate del Kangchenjunga scrutano il mondo, indifferenti a quelle vicende umane che lui è conscio di essere destinato a manovrare a proprio piacimento. Deve andarsene a ogni costo, per compiere il proprio destino.

Un movimento nei pressi lo riconduce al presente.

Dieter Schmitz non indossa da anni la divisa delle SS. Ha tuttavia conservato la personale consapevolezza di rappresentare la perfezione secondo l’ottica nazista. Alto, occhi azzurri, capelli colore del grano maturo, espressione truce e portamento eretto. Hauptstrumfürher fino al midollo. Nel fisico quanto nell’ottusità mentale, constata Von Regensburg nell’attimo in cui l’uomo, ormai vicino, sbatte i tacchi tendendo il braccio destro.

«Heil Hitler!»

Lui risponde al saluto nascondendo l’irritazione. L’idiota si ostina con le formalità. Lo fa da nove interminabili anni, incarnazione di una fedeltà mai venuta meno grazie alla quale la truppa non ha mai voltato le spalle a von Regensburg o al ricordo del Fürher. Von Regensburg lo immagina impegnato a seppellire in fosse comuni resti di nemici sconfitti, oppure intento a impartire i dettami del Reich Millenario a un mondo sottomesso. O forse, cosa altrettanto possibile, piegato con ferro e fuoco ed eliminato da alleati spietati e potenti.

«È guarito, Schimtz?» chiede gongolante: ama il suono della sua voce, simile al raschiare di carta abrasiva sull’acciaio.

«Sì, professore, grazie. Si è trattato di un semplice colpo di freddo: la febbre è già scesa e sono pronto a raggiungere gli altri al lavoro».

«Per oggi riposi ancora: domani la voglio in forma al mio fianco. I locali si stanno preparando a un evento che, immagino, coinvolgerà anche noi».

«Ho notato una certa agitazione, signore, anche se non riesco a capirne il motivo. Sembra quasi che si stia preparando una festa, cosa inusuale per questa gente».

«Ha ragione,» conviene von Regensburg, «le celebrazioni di fine inverno si sono svolte una quindicina di giorno or sono. No, si tratta di altro. Lei si trovava a letto, cotto a puntino. Non ha avuto modo di notare le staffette giunte nel tardo pomeriggio di ieri l’altro, penso per annunciare l’arrivo di qualcuno».

«Sarebbero le prime facce nuove da quando siamo arrivati, signore».

«Si direbbe che si tratti di uno o più soggetti molto importanti, almeno per questi animali. Guardi che confusione».

Von Regensburg indica con dito teso le viuzze tortuose che, più in basso, si intersecano con disegni privi di logica. Il fango lasciato dal disgelo supera in altezza la caviglia di una persona. Ciò non ha impedito alle donne di riversarsi fuori dalle abitazioni per approntare tavolate e cucine all’aperto.

Un miscuglio di aromi disparati raggiunge i due tedeschi, induce lo studioso a storcere il naso. Gyurma, salsiccia a base di sangue di Yak e pecora. Thupka, spaghetti untuosi serviti con carne di montone. Miasmi sprigionati dalla cottura di dense zuppe a base di formaggi. Tingmo, le pagnotte di farina di orzo che cuociono al vapore, forse l’unico odore che riesca a non nausearlo. Sospese sulle fiamme grandi porzioni di carne stanno arrostendo: il grande protagonista è, come sempre, lo Yak.

Von Regensburg odia quel grosso mammifero che i barbari degli altipiani sfruttano in maniera indecente. L’animale è forte. Il suo difetto maggiore è quello di essere di indole pacifica. Si lascia sfruttare per trasporti pesanti. Viene depredato del latte e della lana, morbida quanto il più pregiato cachemere. Permette che la sua carne sia alla base della dieta altamente calorica di quei popoli dal viso appiattito.

Von Regensburg non ne può più del maledetto Yak. Lo mangia, lo beve, lo indossa senza soluzione di continuità da troppo tempo. Per di più è costretto a innaffiarlo con acqua. Per lui è impensabile bere il chang: come può un autentico figlio della Grande Germania bere una specie di birra d’orzo servita bollente? O del vino di riso chiamato pinjopo?

Gli occhi vagano ancora. Il tratturo proveniente da valle penetra come una lama in quel caos per poi uscirne come per incantesimo, diretto all’antico tempio in muratura e legno.

«Mi segua Schmitz, voglio fare quattro chiacchiere con quel santone da strapazzo che vive lassù».


Gli interni raccontano di una dignità antica quanto semplice, rischiarati solo a tratti da coni di luce tenue prodotti da candele al burro. L’aria è satura dell’odore di grasso che brucia miscelato con un intenso profumo di incenso.

Il mobilio è scarno.

Abbondano invece affreschi raffiguranti divinità delle quali von Regensburg non si è mai curato di conoscere il nome. L’unica eccezione, poiché ricorre con maggior frequenza, è rappresentata da Padmasambhava, il Guru Rinpoche, osannato Prezioso Maestro che in epoche lontane ha diffuso con fervore il Buddhismo Vajrāyana in Tibet e nelle regioni circostanti.

Il battito cadenzato delle pedule rimbomba per lunghi corridoi lastricati in pietra. Il loro peso fa scricchiolare i pavimenti in legno di grandi saloni. Sordi mormorii prodotti dai mantra recitati da fedeli in preghiera li accompagnano nel cammino. A quell’ora la maggior parte dei monaci è china negli orti o al lavoro presso le stalle del santuario.

Von Regensburg sale i tre gradini che immettono in uno stanzone spoglio, lasciando che Schmitz si fermi appena prima della soglia.

Una figura gli volta le spalle.

U Pannita Sayadaw si trova dove aveva immaginato che fosse: a gambe incrociate su un misero tappeto, assorto in meditazione davanti alla statua di bronzo del Primo Illuminato, Adi Buddha.

Il tedesco rimane congelato sul posto, in silenzio. Sa per esperienza come non sia consigliabile disturbare la guida spirituale in tale frangente. Quasi sussulta per la sorpresa quando il monaco parla.

«Immaginavo saresti venuto, Sōlalēsa Manstara».

Mostro senz’anima”. Von Regensburg, all’udire l’appellativo che gli hanno affibbiato, stira le labbra in un ghigno privo di allegria.

Il religioso si alza con lentezza, si volge verso di lui.

Il professore è costretto a fronteggiarlo sopportandone lo sguardo severo. In tutto quel tempo non è mai riuscito a insinuarsi tra le pieghe dell’anima di quel buffone con la testa rasata e la pelle incartapecorita, sempre avvolto in una tunica color ocra che gli lascia scoperta una spalla.

Von Regensburg parla la lingua antica di quei luoghi, è in grado di scriverla e leggerla.

«Credo che tu sappia perché sono qui».

Evita di proposito di utilizzare qualsiasi tipo di allocuzione reverenziale.

L’altro ci passa sopra, come sempre.

«La tua anima nera teme dunque così tanto il presentarsi di eventi inaspettati?»

Lui reprime la tentazione di colpire il sant’uomo al volto.

«Non ho mai compreso quale irragionevole suggestione ti abbia portato a pensare tanto male di me».

Il suo interlocutore congiunge le mani sul davanti prima di parlare.

«Le persone che vivono qui sono ospitali, caritatevoli. Seguono precetti di solidarietà inculcati di generazione in generazione. Ho acconsentito a far sì che rimaneste in questo porto sicuro. Troppo tardi ho scoperto quale abisso oscuro sia la tua anima. Ti affretti tanto a coprire occhi senza vita per nascondere la verità. Ma ora, forse, è venuto per te il tempo di abbandonare per sempre questo luogo sacro».

Von Regensburg si sente in dovere di obiettare.

«Ci siamo guadagnati vitto e alloggio lavorando duramente al vostro fianco».

«Il tuo seguito, forse. Tu non ti sei mai spezzato la schiena, hai sempre e solo indagato, studiato, letto. Hai sperimentato».

«Solo su me stesso». Il professore ora si sente contrariato.

«Stai attento, Sōlalēsa Manstara: ciò che hai imparato a padroneggiare non deve essere condiviso con l’umanità. Potrebbe avere conseguenze di cui non comprendi la portata».

Quanta ipocrisia da parte di chi fa uso di doni che non merita.

«Tu vuoi sapere chi stia arrivando». U Pannita Sayadaw va dritto al punto. Fa una pausa a effetto. «Lo scoprirai a tempo debito, non mi è concesso anticiparti alcunché, se non che la tua vita sta per cambiare. Sappi che colui che è in arrivo ha donato tanto a questo luogo. Sta tornando per te. Questa sera partecipa ai festeggiamenti, domani mattina sarai convocato. Da solo. Ora vattene, la mia comunione con il Buddha non è terminata».

Il vecchio volta la schiena, si accuccia sul tappeto.

Von Regensburg mastica bile: accondiscendenza e pazienza non sono mai state il suo forte. Con un sospiro di rassegnazione lascia la stanza.


La carovana appare nel tardo pomeriggio.

In realtà lui ne ha percepito l’avvicinarsi da parecchio. L’alta concentrazione di charas eleva la qualità della cannabis compressa nella corta pipa. Abbinata alle bevande che assimila quotidianamente proietta i suoi sensi verso l’infinito.

L’odore di animali. Lo sfregamento dei finimenti. Lo sbuffare di un cavallo. Il ragliare dei muli. Incitamenti gutturali. L’incedere di uomini appiedati.

A occhi socchiusi espira una nube di fumo verdognolo che un tenue filo di vento disperde subito. Rimane seduto, immobile sulla panca posta a fianco dell’ingresso alla capanna. Da quella posizione lo sguardo spazia sino al limitare estremo della foresta di colossali sempreverdi molto più in basso.

I puntini che ne sono emersi ingrandiscono poco alla volta. Quando sono a metà strada von Regensburg riesce a distinguere i dettagli.

Dieci animali da soma carichi all’inverosimile. Appaiono provati, ne più ne meno della dozzina di individui che, marciando, li sospinge verso l’obiettivo. Uomini dalla pelle ambrata, di alta statura, che indossano abiti da lavoro e turbanti macchiati da polvere e sudore. Fucili a tracolla, pistole nelle fondine.

Il kukri nel fodero ricurvo è rivelatore: instancabili camminatori e spietati combattenti, quelli sono Gurkha che preferiscono vendere le proprie abilità al miglior offerente piuttosto che donarle a una bandiera.

L’uomo davanti a tutti monta un Marwari nero dalla muscolatura possente. Un animale altero con le orecchie curvate all’interno. È forte, l’incedere testimonia a malapena la dura prova alla quale è stato sottoposto.

Il cavaliere è di alta statura. Assomiglia a un esploratore di fine ottocento: giacca in pelle scamosciata marrone, pantaloni in tela dello stesso colore infilati in stivali alti al ginocchio. Un cappellaccio a tese larghe gli copre il capo. Il resto del viso è nascosto da una bandana scura che giunge al naso. Gli occhiali scuri sono simili a quelli utilizzati dal tedesco.

Un brivido premonitore gli percorre la schiena. Dalle due fondine legate basse alle cosce esce il calcio di altrettanti revolver dalla canna lunga. La custodia con il fucile è fissata alla sella. Von Regensburg non le vede, tuttavia si sente certo che quel tipo nasconda più di una lama. Un uomo pericoloso. Se è lui che deve incontrare sarà sua premura presentarsi preparato.

Il gruppo raggiunge l’abitato in poco meno di un’ora. Gli indigeni gli si fanno incontro festanti. I bambini schiamazzano felici. Le donne baciano la mano al capo della colonna, gli uomini la sfiorano con deferenza.

Il tipo si è scoperto il viso ma von Regensburg non riesce a vederlo. Lo osserva attraversare il villaggio osannato, circondato da una folla esultante. Chi diavolo sei?

Il gruppo sparisce nei cortili del monastero. In quell’istante diversi monaci salutano i nuovi arrivati facendo echeggiare le note profonde dei dungchen.

Von Regensburg aggiunge erba alla pipa.


Il banchetto si protrae fino a tarda ora. In una piazzetta fangosa si raccontano, tra musica e dipinti thangka, parabole religiose secondo la tradizione celebrata da Lama Mani. I Gurkha si sono uniti alle famiglie ma non vi è traccia del loro condottiero.

Tutti mangiano e bevono in armonia.

Von Regensburg siede a un lungo tavolo affiancato da Schmitz e dal suo gruppo. Sono otto gli elementi rimasti della squadra originaria. Erano il doppio ma i primi anni di permanenza si sono portati via i più cagionevoli. Gli inverni si sono rivelati spietati per alcuni. Altri sono deceduti in seguito a banali incidenti. Gli eventi hanno rafforzato l’unione tra i superstiti.

Se gli altri mangiano a quattro palmenti lui si limita a spiluccare legumi e verdure. Il dialogo è inesistente. Gli appartenenti al drappello di SS sono stanchi ma non perdono di vista per un istante tutto quanto si muove attorno a loro.

Lui si ritira presto per la notte. Il sonno è profondo, privo di incubi. Come sempre. Von Regensburg non sogna mai, l’oscurità che alberga in lui è totale, lo avvolge, lo protegge.