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Collana Giallo Grano

UNA PIANTICELLA STENTA



Lunedì 3 settembre.


Ferma davanti al cancello della villa, Ester aspettava.
Aspettava che il cancelletto pedonale si aprisse o che qualcuno si affacciasse alla porta a chiedere chi è, così come si usa fare laddove c’è un po’ di educazione, dato che lei aveva premuto il campanello d’ottone con discrezione, da persona bene educata qual era.
Il cancelletto però rimaneva chiuso e nessuno si affacciava all’elegante porta d’ingresso.
Ma che modi erano quelli? Comportarsi così con lei che da tempo non era più una qualsiasi donna a ore, anche se lo era stata per anni e anni della sua vita, ma che con impegno e senso di responsabilità era diventata una donna di famiglia, una di quelle che vivono giorni interi dentro a una casa, a far ordine e pulizie è vero, ma anche ad assorbirne e condividerne l’aria e la sorte.
E la sorte non sempre è amica. Com’era accaduto nelle due famiglie in cui aveva lavorato in quegli ultimi anni, svuotate e rotte in breve tempo dall’urto violento di verità inaspettate. Quanto rimpianto da tacitare, quanta nostalgia da soffocare ripensando alle case di Mariolina e di Marzialucia.

Sentì una fitta dalla parte del cuore. La vita aveva messo sassi e ostacoli sulla sua strada, ma lei era sempre andata avanti a testa alta, guadagnandosi considerazione e rispetto. Si passò una mano nei capelli neri neri per la tintura casalinga, la messa in piega ottenuta con vecchi bigodini di plastica colorata a sfiorarle la nuca.
Intanto tutto restava immobile all’esterno dell’aristocratica villa d’inizio novecento. No, proprio non ci si comporta così con la gente per bene, non la si lascia lì ad aspettare. Anche perché era stata la padrona di quella casa a chiamarla la sera precedente e per di più con la stessa voce e gli stessi modi di quando le aveva telefonato a fine giugno.

*

La telefonata di fine giugno.
Era l’ultimo giorno del mese ed era sabato. Nel tardo pomeriggio era rientrata in casa con ancora negli occhi il profondo azzurro del grande fiume sulla cui riva silenziosa aveva camminato a lungo, lasciando che immagini e vicende degli ultimi mesi capriolassero in libertà tra foglie di nuovo verde e tronchi malati d’anni e d’incuria.
Qualche istante e lo squillo del telefono appeso a una parete della cucina graffiò il silenzio e la frescura.
«Sono Isabella Maria, contessa di Montefosco e di Pianoalto. Voglio una donna capace e affidabile. Ho sentito parlare di lei e ho deciso di concederle un colloquio». Dopo l’estate naturalmente, quando madama la contessa sarebbe rientrata dal mare.
L’estate era scivolata via con pacata lentezza, senza alcun cenno o segnale da parte di Isabella Maria contessa di Montefosco e di Pianoalto. Ester l’aveva quasi dimenticata, così come aveva quasi dimenticato il modo in cui le si era rivolta, ma a sorpresa la sera precedente ancora lo squillo del telefono: «Si presenti domani alle due».
E allora per quale motivo, vista l’ora indicata in quella calda giornata di inizio settembre, non apriva il cancello e la lasciava lì ad aspettare come fosse una che chiede l’elemosina?
Alle sue spalle le automobili rallentavano, perché la strada, provenendo dal centro del paese, si faceva leggera curva che sfiorava il muro grigio limitante la proprietà e poi se ne andava a incrociare la grande arteria soffocata dai centri commerciali, sorti ai suoi lati come gramigna là, proprio là dove prima c’erano prati e rogge e gente di cascina. Tempi lontani, quelli. Adesso, su quegli stessi terreni, grandi parallelepipedi di cemento con insegne di violenta banalità, ossessivamente riproposte in ogni parte del mondo, ingurgitavano e vomitavano gente come fossero insaziabili mostri alieni.
Ester dette un’occhiata all’orologio di foggia maschile che portava sempre al polso – mancavano tre minuti alle due – e riprese a osservare lo spiazzo antistante la grande casa ricoperto da ghiaia grigia rinnovata di fresco. Pilastri di pietra marmorizzati da pennellate di muschio sostenevano il cancello pedonale e quello carraio, entrambi in vecchio ferro battuto. Sulla sommità dei pilastri, grossi vasi di cemento vuoti di verde, ma traboccanti eleganza.
Tre larghi gradini di marmo chiaro dagli spigoli arrotondati, contenuti ai lati da colonnine di travertino, portavano al terrazzino antistante la porta d’ingresso che si apriva al centro della facciata di delicato rosa appassito. Proprio una sciura porta, quella: in legno, a due battenti, con volute liberty in ferro battuto a protezione dei vetri giallo antico nei due riquadri superiori.
Tutto parlava di signorilità in quella grande villa a due piani, con alte finestre incorniciate da sobrie linee di pietra, le persiane di un elegante verde smorzato. Ancora nessuno però rispondeva al suono del campanello.
Scosse il capo, sempre più meravigliata e irritata. Si voltò appena alla sua destra e una sorridente nostalgia le si dipinse sul viso che non nascondeva i suoi settantuno anni: sull’altro lato della strada ecco la discoteca che un tempo era stata per la gente di quel paese e dei paesi intorno il luogo del ballo, complice territorio per desiderati e palpitanti incontri del sabato sera e della domenica, spazio incantato per pudichi incontri giovanili e nostrane adulte trasgressioni. Davanti alla discoteca, che da tempo aveva cambiato nome, l’aprirsi della breve discesa che portava al fiume incuneata tra gli alti muri delle proprietà ai lati. Sotto il leggero ondeggiare degli alberi carezzati da un improvviso respiro di vento, un’elegante figura d’uomo di mezza età camminava a passi lenti.
L’orologio del campanile al centro del paese batté lontane le ore: le due, l’ora esatta del suo appuntamento.
Guardò la bicicletta che teneva alla mano: il blu sempre più sbiadito, un graffio qui e uno là, qualche piccola ammaccatura, i freni che imploravano un po’ d’olio... ma era la sua amata bicicletta, compagna fedele di tanti anni di lavoro che sicuramente non avrebbe lasciato lì, sulla strada, esposta a chissà quali rischi.
Irritata per l’attesa, cominciò a chiedersi che cosa davvero l’aveva convinta a presentarsi alla villa: forse la voglia di guardare in faccia la proprietaria di quella voce satura di arroganza; forse il suo orgoglio punzecchiato dal tono di comando con cui madama la contessa le si era rivolta. O forse semplicemente la curiosità. Forzò la presa sul manubrio della bicicletta:
«Ma và un pò a ciapà i ratt, contessa d’i me’ stivai, mi vo via».
In quel momento, lo scatto di una serratura elettrica. Breve, metallico, appena percepibile. Oltre il ferro battuto del cancello, oltre il grigio della ghiaia perfettamente stesa, oltre i larghi gradini che conducevano all’ingresso, finalmente il silenzioso socchiudersi della porta. Subito dopo, lo scatto della serratura del cancello pedonale. Con cautela Ester lo spinse e, affondando i passi nella ghiaia con la bicicletta saldamente tenuta alla mano, raggiunse l’ingresso, appoggiò con cura la bicicletta al muretto e salì i tre larghi gradini. La curiosità dentro a ogni passo, a ogni movimento, ma ben contenuta e dissimulata, anche quando nel vano della porta si compose il viso rotondo e scialbo di una donna sulla sessantina, i capelli grigi desolatamente senza piega, sforbiciati di netto all’altezza dei lobi come neanche le povere orfanelle del tempo andato, che la scrutò a lungo con sguardo severo, distante, freddo. Non una parola finché, dura e impettita:
«Avanti».
Ester non si mosse; restò ferma sulla soglia, continuando a fissare la donna. O Signur, tutto lì? Qula roba lì? La contessa l’era qula roba lì?! La voce piena di prosopopea, l’esaltazione aristocratica, il vanto del titolo. E nella realtà era quella donnetta tozza dalla vita larga e dalle gambe corte, affondata in un sacco di cotone blu metallico a fatica definibile vestito?
«Avanti», ordinò di nuovo la donna con voce robusta e rigida mentre si avviava altezzosa lungo l’ampio corridoio, strascicando lenta i piedi nelle ciabatte larghe. Ester la seguì perplessa, catturando con lo sguardo le alte porte in stile veneziano, le cornici di stucco alle pareti, le piastrelle esagonali rosse e bianche del pavimento vecchio, la cassapanca in noce sul lato sinistro e il solido attaccapanni a muro, tutto dentro un silenzio immobile che pareva bloccare ogni respiro.
O povra mi, ma che contessa l’è custa chi?
Alla seconda porta a destra – la patina del tempo a carezzare l’avorio del legno e le delicate giravolte di piccoli fiori rosazzurro – la donna si fermò, raddrizzò le spalle massicce, prese un profondo respiro, si voltò verso Ester con la rassegnata degnazione di chi non ha alternative e poi, marcando con voluta lentezza la solennità del momento, aprì la porta sulla luce pacata di un’ampia stanza. Sul volto dalla fronte bassa e dalle labbra sciupate si stese un velo di rispetto e nervosismo. Pendolando sulle gambotte tonde la donna si diresse alla parete di fronte, aprì le ricche tende e spalancò le persiane. La luce del giorno inondò la stanza e accese il velluto dorato delle quattro poltrone sul lato destro, animando le pareti colme di libri perfettamente allineati in eleganti librerie di legno massiccio.
In quel momento, da una delle poltrone, come da un lontano cielo immobile, si levò una voce: «Va bene così. Vada pure, Angiolina».
Angiolina, puntando verso Ester il naso corto dalle larghe narici e il lampo di uno sguardo ostile, senza una parola se ne andò nel blu metallico del suo vestito a sacco e si chiuse la porta alle spalle.
Ester inquadrò con lo sguardo la figura femminile sulla poltrona.
Eccola. Eccola lì, la contessa Isabella Maria di Montefosco e di Pianoalto. Magra, il dorso eretto, la pelle del viso asciugata dall’età, l’appassito biondo dei capelli trattenuto in una crocchia sulla nuca, le braccia appoggiate ai braccioli, le mani affusolate segnate dalle macchie del tempo, la contessa percorse il corpo di Ester con inespressivi occhi azzurri, ne indagò il viso e il corpo maturo dentro a gonna e maglietta fresche di stiratura, soppesò e valutò il suo starsene immobile vicino alla porta.
Ester sentì una stretta allo stomaco, come se qualcuno le adunghiasse la carne.
Proprio come allora.
Lo stesso sguardo di quel tempo lontano. Come se il tempo non fosse trascorso.
Si portò le mani alla fronte, a tentare di contrapporsi alla vertigine che la stava ributtando nel suo passato di adolescente povera e orfana, quando – morto il padre nella cava di beole, il cuore improvvisamente spezzatosi come una pietra dalla vena docile; morta di fatica la madre nel paese di bassa montagna dove era la loro casa – il buon cuore del parroco l’aveva sistemata a servizio in una villa sul lago Maggiore.
Lontani cugini, suoi unici parenti, l’avevano aiutata a vendere le tre magre vacche, i pochi polli e le due stanze che erano stati la sua misera esistenza e presto presto l’avevano fatta salire sulla corriera che, a ogni curva gemendo nostalgia, l’aveva portata giù, in basso, al lago.
Gli occhi fissi al finestrino opaco di polvere, quel giorno Ester non aveva versato una lacrima.
Non aveva pianto vedendo allontanarsi le povere case di cui conosceva ogni sofferenza, ogni minuscola speranza; quattro case di pietre grigie, piccole case, ognuna addosso all’altra, con solidi tetti di beole che non capivi come facessero a non scivolare giù; solo lo sapevano gli umili maestri di quell’arte antica che con mani di fatica e di calli aggrappavano una beola all’altra. Casucce nere di stenti con incerti ballatoi di legno che s’avvitavano tra minuscole strade di terra ammollata per l’urina e per gli escrementi sfuggiti alle stalle.
Non aveva pianto lasciando quel paese in cui la vita aveva il volto di pietra delle donne che s’inerpicavano sui fianchi dei monti, il fazzoletto nero in testa, la camminata curva di chi porta sulle spalle la gerla del bisogno e neppure aveva pianto per lo scontornarsi degli alpeggi a cui accompagnava le vacche durante l’estate, perché il latte profumasse di fiori e soprattutto perché quelle si arrangiassero da sole a mangiare l’erba, visto che il fieno andava conservato per l’inverno.
Ester giovinetta non aveva pianto, perché la vita di montagna le aveva da subito insegnato che piangere è solo una perdita di tempo.
Intanto dalla poltrona la contessa continuava a guardarla rigida, con la stessa aria di superiorità di una statua al museo; la guardava così come l’aveva guardata la vecchia signora dal volto di cipria quando per la prima volta, orfana smarrita, aveva messo piede nella grande villa sul Lago Maggiore. In quella villa aveva imparato a pulire, a lucidare, a curare la biancheria e le si era palesato il suo destino di serva.
E adesso, dopo tutti quegli anni, ancora l’uguale sguardo indagatore, che con superiorità soppesa animo e ossa, che ti denuda, e ancora più grandi furono sorpresa e incredulità quando sentì la contessa rivolgerle la medesima domanda che le era stata rivolta allora:
«Lei si chiama Ester, vero? Ester con l’acca o senza?»
Il tuo destino ti sta sempre addosso, ti sta sempre incollato alle spalle. Non se ne va da te, il tuo destino. C’è sempre qualche acca che manca o che resta attaccata ai panni che indossi.
D’impeto le uscì la stessa risposta di allora, quella che, adolescente, aveva dato alla vecchia signora della villa sul lago: «Senza. Ester senz’acca. Sono figlia di povera gente di montagna che neppure ci pensava all’acca nel nome. Certi lussi non se li poteva proprio permettere».
La contessa continuava a osservarla e sotto quello sguardo Ester tornò a sentirsi la ragazzetta a cui il precoce seno prosperoso faceva corto il vestito. Ma adesso cribbio aveva tutta la vita addosso e non una vita semplice la sua, ma una vita che, a saperlo fare, ci si sarebbe potuto scrivere un romanzo. A saperlo fare.
Acca o non acca, lei era quella che era, era la Ester e ne andava orgogliosa. Quindi come si permetteva quella legnosa e inamidatacontessa di Vattelapesca di parlarle così? Chi si credeva di essere quella lì?
Ester raddrizzò le spalle, si sistemò con le mani la maglietta e la gonna, alzò il mento su cui svettava il naso così diritto da parere disegnato con il righello e guardò negli occhi la vecchia aristocratica che, più o meno, poteva avere la sua stessa età.
«Alura? Cusa gh’è? Dim cus ta vorat, visto che sei stata tu a chiamarmi».
Isabella Maria, contessa di Montefosco e di Pianoalto, la guardò scandalizzata, incapace di reagire a quell’incredibile approccio e sempre più stupefatta la sentì aggiungere:
«’sculta, sciura bèla, io non ho tempo da perdere e soprattutto non mi va di star qui a farmi guardare da te come una cavalla in vendita alla fiera del paese. Cercati qualcun’altra e rangias. Mi vo via».
Si voltò, uscì dalla stanza e a passo spedito ripercorse il corridoio affondato nel silenzio, dentro cui in un lampo si materializzò lo sguardo trionfante di Angiolina che, soddisfatta e vittoriosa, con secca energia le chiuse alle spalle la porta d’ingresso.
Ma la sera stessa, mentre Ester riordinava con la solita cura la sua piccola cucina, tornò a squillare il telefono.
«Pronto. Sono la contessa…»