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Collana Giallo Grano

Prologo


Great Riff Valley, Etiopia, Africa.

Sole impietoso in cielo. Tutto il resto era polvere soffocante.

Padre Raffaele Agnelluti osservava il territorio al di fuori della cabina di guida dell’imponente truck, il primo di una fila di sei veicoli uguali. Vampate di calore, che si mescolavano alla coltre giallastra sollevata dal rotolare dei pneumatici, rendevano le alture circostanti sagome incombenti difficili da discernere. Non che ci fosse molto da vedere: saltuarie macchie di vegetazione, composte da scarne acacie o sicomori malati, apparivano a tratti interrompendo la monotonia di un paesaggio formato per lo più da rilievi disordinati coperti da sabbia e bassi cespugli. La lunga e anomala siccità che aveva afflitto l’intero paese negli ultimi mesi aveva lasciato tracce indelebili ovunque, anche nelle regioni più fertili. Di queste ultime non faceva sicuramente parte la porzione di Acrocoro, nella quale la carovana si trovava a transitare.

Il sacerdote prese da una tasca della giacca un pacchetto di sigarette offrendone una al conducente, un giovane di colore di una magrezza im­pressionante.

Dopo avere acceso per entrambi, il religioso ritornò a controllare i din­torni con lo sguardo, riflettendo sul motivo della sua presenza in quel luogo.

Forte di un PIL in crescita del 10,8% annuo, almeno nell’ultimo de­cennio, l’Etiopia rimaneva un paese dalle grandi contraddizioni: la ric­chezza crescente si accumulava nella capitale, a vantaggio di chi facoltoso lo era sempre stato. Le aree rurali, invece, vedevano aumentare a dismisura il numero degli indigenti e dei nuovi poveri. La trasformazione dei prodotti agricoli, le lavorazioni tessili e dei pellami, il fiorire dell’industria di componenti meccanici e l’interesse dimostrato dai colossi mondiali del cemento erano solo una delle facce della stessa medaglia: quella opposta veniva rappresentata dalla totale mancanza di precipitazioni che, da oltre un anno, pesava mortalmente sui raccolti e sull’azzerata redditività dell’allevamento di bestiame. Anche il clima sociopolitico era ostile: più di ottanta gruppi etnici venivano governati con piglio dittatoriale, malgrado la nazione fosse definita una Repubblica Federale. Land grabbing, rivalità tribali, emarginazione e ingiustizia erano le regole in vigore, in barba alle denunce di studenti, cittadini e osservatori internazionali. Il paese si trovava a mostrare al mondo un doppio volto rappresentato da un forte legame con gli Stati Uniti d’America da una parte, e con gli Shabaab somali e le frange più intransigenti dello jihadismo dall’altra. In migliaia fuggivano verso i porti del Nord Africa per divenire preda dell’avidità di scafisti senza scrupoli, ingrossando le fila di disperati provenienti da paesi quali Siria, Libia e Nigeria, che partivano per l’Europa su carrette galleggianti in cerca di una vita degna di tale nome. Chi rimaneva lo faceva per patire la fame e fronteggiare le più disparate malattie: nel paese la speranza di vita media si attestava attorno ai quarantanove anni.

Organizzazioni non governative senza scopo di lucro si occupavano di rifornire il paese di generi di prima necessità che scarseggiavano ovunque, in particolar modo nei miseri villaggi dell’interno. Spesso le carovane che trasportavano derrate alimentari, merci e medicine venivano attaccate da bande di predoni armati che, impadronitisi dei preziosi carichi dopo avere eliminato i volontari, contribuivano ad alimentare un fiorente mercato nero.

«Eventi che si verificano sempre più spesso» concluse tra sé, con amarezza, padre Agnelluti. I mezzi componenti il convoglio erano diretti all’ospedale di un villaggio al confine tra le regioni di Oromia e Amara. Lui era il responsabile della loro sicurezza.

L’uomo era un prelato differente dalla maggior parte dei suoi colleghi, a cominciare dall’aspetto: un omone che passava il metro e novanta, con un viso duro caratterizzato dalla mascella volitiva coperta da una folta barba nera. Quest’ultima nascondeva una profonda cicatrice sulla guancia sinistra. I capelli, ingrigiti alle tempie, erano tagliati a spazzola e gli occhi rilucevano simili a biglie di ossidiana. Indossava una mimetica beige. La fondina assicurata bassa alla coscia alloggiava una Desert Eagle Mark XIX .50 AE brunita.

L’Entità, intenzionata a porre fine allo stato delle cose, aveva affidato a lui il compito di indagare in loco una volta portata a destino la colonna. Sul veicolo successivo viaggiava padre Duilio Ragonese, il suo giovane aiutante. I quattro laici al posto del passeggero nei mezzi rimanenti erano contractors ingaggiati dallo stesso Agnelluti. Li conosceva da tempo. Non amava affatto la compagnia dei mercenari di professione ma, per tale occasione, era stato costretto “con gentilezza” ad accogliere il suggerimento rivoltogli da chi aveva autorizzato la missione, il suo diretto superiore, Giandomenico Volta. L’uomo, ex ufficiale del SISDE, si era guadagnato più con i fatti che con le parole il comando del servizio segreto più efficiente al mondo: quello del Vaticano. Ogni sua indicazione veniva seguita alla lettera, a riconoscimento di un’esperienza infinita, maturata con la frequentazione di spietate realtà sommerse e infidi campi di fuoco.

La colonna era in procinto di affrontare una lunga salita che si perdeva tra brulli contrafforti. Padre Agnelluti si irrigidì sul sedile, colpito da un subitaneo acuirsi della tensione: a malapena visibile, una nuova nube di polvere si alzava da un canalone più avanti, sulla sinistra rispetto a loro, e denunciava la presenza di qualcosa in rapido avvicinamento. Impugnare il fucile d’assalto F2000, inserire il colpo in canna e allertare il resto della squadra via intercom fu un’unica, veloce, sequenza di gesti.

Cinque Humvee tinta sabbia doppiarono una balza in formazione compatta, giungendo allo scoperto. Puntavano a tutta velocità sul mezzo che ospitava Agnelluti, incuranti delle asperità. Un istante dopo si allargarono a ventaglio seguendo uno schema preordinato. Da un tetto apribile fuoriuscì un gigante in mimetica ed elmetto, il viso coperto da occhialoni tattici e una bandana chiara. Puntò il lanciarazzi che teneva in spalla e lasciò partire il colpo.

«Dio, aiutaci…»

L’invocazione di Agnelluti si perse nel fragore dell’esplosione: il proiettile, indirizzato con precisione, impattò sotto l’assale anteriore del Renault. Il religioso fece tempo a vedere le ruote schizzare altrove, poi la polvere avvolse la cabina che sussultò, inclinandosi su un lato con un terribile rumore di lamiere contorte. Il guidatore venne dilaniato mentre la portiera dal lato passeggeri si apriva per effetto del contraccolpo. Schegge taglienti ferirono il prete al viso e alle mani. La visibilità era prossima allo zero, il mitragliatore sfuggì alla presa perdendosi nel nulla, la cintura di sicurezza si staccò dal supporto. Senza quasi capire come, Agnelluti fu fuori. All’impatto contro il terreno la spalla sinistra fu percorsa da strali di sofferenza. Approfittò del polverone, emerse dalla nebbia presso alcuni macigni che si trovavano al lato della pista. Li utilizzò per ripararsi. Era sofferente ma almeno riusciva a muoversi: Desert Eagle in pugno, tentò di valutare la situazione.

La cabina del mezzo sul quale aveva viaggiato non esisteva più ma il rimorchio, intatto, si era messo di traverso bloccando la marcia ai restanti trucks. Gli assalitori riuscivano a muoversi senza difficoltà, e scorrazza­vano da un veicolo all’altro bersagliando gli abitacoli con armi pesanti. Agnelluti, acquattato tra i massi, riconobbe lo staccato mortale di almeno due Browning M2 .50 e subito la verità fu chiara quanto inaspettata: quelli non erano semplici predoni. Si trattava, piuttosto, di una forza d’attacco paramilitare addestrata alla perfezione.

Con orrore realizzò come i suoi uomini venissero trucidati con spietata efficacia. Quasi vomitò nel momento in cui vide la testa di padre Ragonese esplodere e spargersi sul parabrezza. Sapeva di non potere fare nulla per aiutare i suoi compagni, ma era ormai suo dovere cercare di sopravvivere al fine di portare davanti alla giustizia i responsabili di quel massacro.

Signore, dammi la forza e non giudicarmi male, se vorrai…

Si allontanò strisciando senza essere visto, come il verme che si sentiva. Riuscì perfino a non lasciare tracce di sé. Raggiunse un rilievo, distante circa un chilometro, nel momento in cui la sparatoria diminuiva d’intensità.

Acquattato tra alcuni cespugli prelevò da una giberna un piccolo binocolo dalle lenti antiriflesso. La spalla lesa doleva terribilmente, ed era del tutto fuori uso. Attraverso l’ottica Zeiss mise a fuoco il teatro della strage: alcuni uomini, in battledress da deserto, cercavano i sopravvissuti per finirli con un colpo alla testa.

Il tipo che aveva dato il via all’aggressione doveva essere il condot­tiero della ventina di barbari che si aggiravano tra i camion crivellati di colpi. Erano stati attenti a colpire solo le motrici badando a lasciare intatti rimorchi e carico.

Il colosso sbraitava ordini. A un certo punto si scoprì il viso per asciugarsi il sudore e parlare a una minuscola ricetrasmittente. Agnelluti inquadrò quell’assassino alto quasi due metri con il fisico da wrestler: portava i capelli biondi tagliati molto corti. Gli occhi erano pozzi di piombo fuso, crudeli, privi di vita. Con un sussulto fu certo di conoscere quel volto spietato: fotografie segnaletiche corredavano un dossier che aveva letto anni prima. Non ricordava quale servizio lo avesse diffuso così come non rammentava il nome dell’uomo, dato per disperso in azione parecchio tempo prima. Di sicuro sapeva che era più vivo che mai ed era stato membro dei corpi speciali russi, abbandonati per vendere le proprie abilità al miglior offerente.

Altri seguirono il suo esempio, scoprendo il capo. Con sgomento il religioso osservò una maggioranza di tratti slavi. Quelli non erano banditi locali, si trattava di una task force composta da assassini di professione, abituati a commettere infamie ovunque fossero pagati per farlo.

Il leader chiuse la comunicazione. Agnelluti udì un nuovo rumore, quello di altri motori che, questa volta, si avvicinavano con lentezza. Nel giro di un quarto d’ora fecero la loro comparsa quattro autoarticolati Volvo FH16.

Agnelluti rifletté. Dovevano servire a contenere il carico dei loro Re­nault, pur se stipato all’inverosimile.

Le tinte tenui con le quali erano verniciate le cabine… dove le aveva già viste?

In quel momento il religioso si accorse di come, conferendo con un paio dei suoi, il colosso biondo spingesse lo sguardo sui dintorni, arrivando quasi fino al luogo in cui lui era nascosto. Che avessero realiz­zato che mancava un cadavere alla conta?

Cercando di ignorare il dolore, la spalla era senza dubbio rotta, padre Agnelluti iniziò a strisciare all’indietro. Osservò il gigantesco mercenario urlare istruzioni ad alcuni uomini che, subito dopo, partirono in caccia con gli AK 101 imbracciati.

Non poteva farsi trovare, Dio misericordioso gli aveva regalato un’opportunità e lui non poteva permettersi di sprecarla.

Era all’oscuro di dove si trovasse con esattezza, attorno c’era il nulla, la testa gli girava a causa delle fitte dolorose che, a partire dalla clavicola, si diramavano per tutta la schiena. Ma non doveva farsi prendere.

Con molta cautela e infinita sofferenza iniziò ad allontanarsi.