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Collana Giallo Grano

INFERNI

«I vichinghi! Arrivano! Ci attaccano! Correte, rifugiatevi nella fore…».

Il grido d’allarme si levò forte, disperato, penetrando la foschia mattutina, prima di essere troncato nella sua nota più acuta. Subito dopo il fuoco aggredì le palizzate del porto, e il villaggio si trasformò in un tumulto di urla, gemiti e gente che correva cercando di salvare il possibile: una pecora, un maiale, una sacca di cibo.

«In piedi, bambini, svegliatevi! Dovete fuggire. Tenete, afferrate le coperte. Tu, prendi il pane là sopra, e le patate, veloci, mettete tutto nelle coperte e correte fuori. Non fermatevi! Il mantello pesante, non dimenticate il mantello pesante e gli stivali!»

La mamma sembrava impazzita mentre dettava freneticamente quegli ordini. Con una rapidità che non le conosceva, Aghna la vide arraffare tutto quel che poteva e ammucchiarlo dentro le coperte, mentre lei e suo fratello infilavano scarpe e vestiti più in fretta che potevano, incalzati dai suoi avvertimenti terrorizzati.

Aghna non ne capiva il motivo, aveva soltanto sognato una voce che dal porto avvertiva il pericolo, e la confusione.

«Cosa succede?» provò a domandare con la voce ancora impastata dal sonno e, per tutta risposta, si ritrovò tra le mani una delle due coperte annodate a formare un fagotto, l’altro era fra quelle di suo fratello, non meno frastornato di lei.

La mamma li afferrò ciascuno per un braccio e li trascinò verso la porta, fuori dalla capanna.

«Fuggite nella foresta! I vichinghi non arriveranno laggiù, sarete in salvo, non vi troveranno!»

Il villaggio era un inferno di fuoco, le grida e i gemiti s’intrecciavano con i versi degli animali atterriti. “Qualcuno sta morendo” pensò Aghna, e quasi ruzzolò per terra spinta da un uomo che urlava e correva. La bambina si guardò intorno spaurita, non c’era più traccia della sua mamma e neppure della capanna, inghiottiti dalla confusione e dal fumo. E suo padre? Non l’aveva visto al risveglio.

Dahy la aiutò a rialzarsi: «Sbrigati, andiamo via, verso la foresta, da quella parte!» Anche la voce di suo fratello era incalzante e nella sua mano brillava la lama di un coltello, la bambina ne fissò impaurita il luccichio sinistro.

Aghna gli corse dietro trascinando la sacca troppo pesante per lei; lui però aveva le gambe più lunghe e andava veloce, così lo vide allontanarsi e sparire nella confusione.

Si fermò frugando con gli occhi nella nebbia creata dagli incendi appiccati ovunque, lo chiamò con tutto il fiato che le era rimasto: «Dahy! Dahy!»

Dal muro di nebbia balzò fuori un gigante.

Aghna sollevò su di lui lo sguardo atterrito. La barba lunga e rossa lo faceva rassomigliare a un demone, gli occhi fuori dalle orbite e il ghigno beffardo gli deformavano la faccia, le sue braccia erano sollevate nell’atto di brandire un’ascia. Aghna urlò.

«Svegliati, Aghna, è un sogno, è il solito incubo!»

La voce la raggiunse attraverso l’inferno che danzava nella sua mente e Aghna spalancò gli occhi. Il suo sguardo fu catturato dal chiarore dell’alba, suo fratello Dahy le era accanto e l’accarezzava.

«Sei al sicuro, Aghna» la tranquillizzò. «I vichinghi se ne sono andati tanto tempo fa, non devi avere ancora paura».

Erano trascorsi tre anni da allora eppure, anche se nella foresta avevano trovato un rifugio, costruito una capanna, coltivato ortaggi e allevato qualche pecora, anche se più niente e nessuno aveva disturbato la loro quiete, Aghna non era più riuscita a parlare.

Eseguiva le commissioni che il fratello le diceva di fare, si occupava delle bestiole e del piccolo orto, quando occorreva andava a cercare legna e piante medicinali, ma non aveva più pronunciato una sola parola. Dahy si era rassegnato ad avere una sorella muta.

Adesso Dahy aveva diciassette anni ed era diventato un ragazzone alto, tanto rassomigliante a suo padre, con un bel viso da adolescente e la mascella decisa su cui spuntava il primo accenno di barba, i folti capelli castani e l’espressione ridente degli occhi che aveva ereditato dalla madre.

Mentre osservava la sorella riprendersi dall’incubo, il ragazzo intrecciava nervosamente le dita, poi si pizzicava un labbro, passava il pugno sul naso, quindi le serrava la mano fra le sue, aggrappandosi alla speranza che proprio quel giorno il destino volesse che lei ricominciasse a parlare; dopo tre anni però non era cambiato nulla, Aghna urlava nella notte e lo svegliava di soprassalto, ma poi, durante il giorno, restava muta.

Dahy si sentiva come il testimone conteso da due opposte fazioni: da un lato desiderava lasciare la foresta, mettersi al servizio di qualche signore e imparare a combattere, dall’altro gli mancava il coraggio di abbandonare Aghna da sola e in quello stato. Dahy sognava. Sognava del grande condottiero di cui aveva sentito parlare al villaggio, dell’uomo che, guerra dopo guerra, era riuscito a unificare sotto la sua bandiera una parte del paese, riducendo le lotte fra i clan che devastavano Ierne. Brian Boru Mc Cennetig e veniva dal Munster, a Dahy sarebbe piaciuto lottare per lui.

In alcuni momenti l’idea lo infiammava a tal punto da dimenticare la realtà che lo circondava; allora la foresta e la capanna svanivano, vedeva se stesso brandire una spada scintillante, fare una strage di nemici, in sella a un alto baio, mentre brandiva una spada scintillante e faceva strage di nemici, udiva il clangore della battaglia e le grida dei suoi personaggi immaginari gli riempivano le orecchie e la mente, e lui si sentiva felice.

Una gioia breve e, ogni volta, Dahy ripiombava dai sogni alla realtà del bosco e della capanna, della sua vita solitaria, della sua vita con Aghna. Lei era così mite, silenziosa, il suo sguardo era spesso smarrito nel vuoto, il giovane era convinto che sua sorella fosse a due passi dalla follia e non sapeva che fare.

La fissò negli occhi ancora sgranati per il terrore e, istintivamente si coprì la faccia con le mani, come se fosse lui a doversi svegliare da un incubo.

Anche quando i vichinghi se ne erano andati, Aghna si era rifiutata di lasciare la foresta e di tornare al villaggio. Da allora non aveva più voluto ascoltare nulla che riguardasse il passato, la loro casa e i loro genitori, e quando Dahy provava a insistere per riportarla alla realtà, la ragazzina assumeva un’espressione così vacua che lui perdeva tutto il coraggio e si dava per vinto. Il ragazzo ripensò a quand’era tornato al villaggio dopo che i vichinghi se n’erano andati, e gli occhi gli si offuscarono di lacrime che lui scacciò tirando su col naso e stropicciandosi le palpebre: le immagini che gli erano rimaste impresse sapevano sconvolgerlo ancora. I pochi sopravvissuti piangevano i morti, gli averi rubati, le case bruciate, lui aveva ritrovato suo padre e sua madre, trucidati.

“È stato un bene che Aghna non abbia visto il massacro o sarebbe già diventata pazza”.

Dahy aveva sepolto i genitori da solo, aveva scavato una fossa sotto la quercia intorno alla quale lui e sua sorella erano soliti correre e giocare, poi era tornato nella foresta.

Di tanto in tanto si recava al villaggio per barattare con farina e formaggio gli attrezzi che fabbricava, oltre che per avere notizie di quel che accadeva su Ierne: Dahy entrava nella sala comune e ascoltava, non parlava mai di sé o di sua sorella.

Aghna gli rivolse un sorriso e saltò fuori dal letto, l’inverno era alle porte e cominciava a far freddo.

«Devo finire di riparare la stalla prima che cominci a piovere, ti va di andare a raccogliere legna? Da domani ti aiuterò anch’io e faremo una bella provvista per tutto l’inverno». Dahy aveva dato alla voce l’intonazione più dolce di cui era capace, anche se avrebbe preferito gridare e magari sbattere i pugni sul muro sino a farsi male, invece nascose l’insoddisfazione per quell’esistenza da recluso dietro la tenerezza che provava per la sua sorellina sfortunata; non voleva che Aghna si sentisse in colpa e cercava di mostrarsi allegro, pur continuando a sognare avventure, amici, libertà.

“Non ce la faccio più” pensò. “Ancora un inverno e poi me ne andrò, troverò una soluzione, Aghna potrebbe venire con me”.

La osservò mentre si avvolgeva nel mantello diventato troppo corto per lei. Stava diventando una bella ragazza con grandi occhi neri dalle ciglia lunghissime, benché i capelli corvini fossero sempre acconciati in due trecce come quand’era bambina; anche se i tratti del viso erano ancora infantili, le forme del corpo lasciavano intuire quella che sarebbe stata la donna futura.

Dahy serrò le mascelle e sentì i denti scricchiolare. “Non potrà mai venire con me, è troppo fragile, dovrò affidarla a una famiglia o condurla in uno di quei luoghi dove si formano i druidi e le sacerdotesse, magari con loro troverà uno scopo alla sua vita, ma non so se troverò mai il coraggio di farlo”.

Per quanto sua sorella stesse diventando graziosa, Dahy era sicuro che nessun uomo avrebbe accettato in sposa una ragazza muta che soffriva continuamente di incubi. 



Benché facesse freddo, il sole splendeva piacevole e il cielo era limpido. Aghna si addentrò nella foresta sotto le foglie luccicanti di rugiada, tra i fasci di luce che i rami spezzavano creando spruzzi luminosi che ricadevano ovunque, a volte abbagliandola. Aghna si abbandonò al gioco socchiudendo una palpebra e poi l’altra, si divertì a catturare con gli occhi gli scherzi di luce, accompagnò la canzone che cantava dentro la testa con movimenti aggraziati delle mani e delle braccia. Poi tornò al suo lavoro, cercò i rami più secchi, li tagliò, li raccolse e li legò formando delle fascine che sistemò nei punti di passaggio lungo il sentiero, per poi poterle ritrovare e trascinare sino a casa, a fine giornata. Era un lavoro faticoso ma le piaceva.

Vagando nella foresta, Aghna trovò un arbusto rigoglioso e cominciò a tagliare, partendo dai rami più alti per finire con quelli più grossi alla base, avendo cura di non potare troppo la pianta affinché non ne soffrisse e crescesse ancora più robusta nella bella stagione. Alla base dell’arbusto, Aghna vide che la terra era stata spianata e che non vi crescevano né erba né altre piantine; incuriosita da quella stranezza, afferrò un ciuffo di fronde ormai secche e cominciò a ramazzare: emerse qualcosa di nero e lucente. La ragazzina rimosse la terra meticolosamente, risoluta a capire cosa ci fosse là sotto: la grossa lastra rettangolare che vi era stata sepolta vide la luce.

Aghna restò sorpresa a fissarla.

Era la copertura di una tomba. Aghna non ne aveva mai viste ma ricordava le canzoni dei bardi che narravano di antichi eroi sepolti nei boschi dentro bare di pietra. Gli stessi eroi che lei aveva immaginato tante volte mentre salvavano la sua famiglia dalla brutalità dei vichinghi, quegli eroi che non erano mai arrivati.

Gli occhi si velarono della malinconia dei ricordi ma la ragazzina reagì e si raddrizzò, sollevando con fierezza il capo e cancellando le prime lacrime. Non doveva, non poteva cedere alla tristezza.

Si chinò invece a osservare meglio la lastra.

I bordi erano regolari e la superficie levigata, Aghna passò il palmo della mano sulla pietra come se volesse accarezzarla, la pelle si ferì contro le irregolarità di un’incisione e lei cercò di metterla a fuoco attraverso i giochi d’ombra e di luce proiettati dai rami e dai raggi del sole sull’ossidiana: c'era un disegno, un’iscrizione o un simbolo, al centro della lastra. Aghna ne seguì il contorno con l’indice e, con un sussulto, ritrasse la mano come se scottasse.

Un’immagine inconfondibile si proiettò dai polpastrelli al suo cervello, quella della Luna Capovolta.