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Collana Nero Inchiostro

CAPITOLO 2

Il Blues, Pistoia 1989


Era un pomeriggio di inizio estate ma faceva già caldo da un pezzo e i ragazzi del cortile avevano il segno della canotta sul corpo. Giocavamo a Undici porta unica, e a me toccava alzare la palla, quando dal terzo piano dell’edificio accanto al nostro attaccò, con qualche incertezza, un blues. Era arrangiato per suggerire l’ondeggiamento del bacino e delle spalle, per essere seguito con il battito di un piede o lo schiocco ripetuto delle dita: era Walking in blues di Lightnin Hopkins, che allora non sapevo nemmeno chi fosse. Tutti si sono fermati perché il cortile era sempre stato abitato dai rumori degli appartamenti, dalle voci dei bambini e qualche volta da Gianni Morandi che cascava giù dalla signora Piera del secondo piano. Mai si era sentita una roba così poco ortodossa.

Ci guardavamo imbarazzati e ci veniva da ridere a pensare quanto il nuovo condomino del terzo piano fosse fuori luogo. Eppure quella musica continuava con il suo volume coraggioso e ci faceva capire che si trattava di un atto di personalità e dunque maledettamente vero. Eravamo in quelle circostanze in cui sottovaluti la novità che ti si para di fronte e all’inizio non puoi che trovarla ridicola. Sei sicuro che finirà spazzata via, calpestata e abbattuta dalla realtà come tu la conosci e, invece, d’un tratto, ti accorgi che è già parte del mondo, che è più grande di te e che sei tu quello che non ne sa niente. Il ritmo della chitarra ricordava l’incedere al trotto e a me veniva da pensare a un cowboy partito solitario per il deserto, con il vento che lo prende a sberle e lui avanti, con il sole sulla fronte. Tre minuti dopo la chitarra riprendeva, rapida, sottile, e trascinava Back to New Orleans che era diversa da quella di prima ma che, in modo misterioso, ne condivideva l’anima. Ce l’aveva Katie Mae e Down there Baby e i pezzi che uno dopo l’altro schizzavano via da quella finestra e potevano essere lentissimi o veloci, ritmati o meno, ma rimanevano fedeli a qualcosa di superiore. Un accento, una cantilena, un modo simile di raccontare storie differenti.

La lingua del blues parte tranquilla, forse anonima, ma si ripete una, due, tre, quattro volte. Ribadisce ciò che è semplice e monta ipnotica, com’è la passeggiata per chi non sa dove andare. Poi si cambia sulla quinta e sesta battuta, ci si guarda intorno, si considera e si riprende. D’un tratto la musica va su, dichiara, e torna giù e ruzzola su una scala a pioli sgangherata. Di nuovo, da capo, dal principio. Sono dodici battute che gli strumenti, le tensioni, gli assoli, le improvvise variazioni rispettano e vi fanno ritorno, in segreto ammaliati, al termine di ogni furiosa scorribanda.

Preso com’ero a confezionare assist e tiri al volo, non prestavo grande attenzione a queste faccende. Le percepivo e basta, sentivo il ritmo e mi lasciavo dondolare una partita alla volta, un disco dopo l’altro.

Il blues aveva già catturato il mio cuore, con la promessa, e maledizione, di tenermi con sé a lungo.



Carlo, il ragazzo del terzo piano, era diventato per me la maggiore attrazione del cortile. Fingendo disinteresse, chiedevo informazioni alla mamma e al nonno ma loro ne sapevano meno di me e, soprattutto il nonno, non sentiva il bisogno di tessere nuove relazioni di vicinato: «A post insci», diceva.

Io invece lo spiavo dalla finestrona quando tornava a casa, a volte la sera, a volte la mattina e ho pensato subito che lavorasse su turni, come all’inizio faceva la mamma. Era un ragazzo alto e magro, vestito sempre di scuro, anche d’estate, e taciturno. Poteva avere ventisette o ventotto anni – la mamma pronosticava non arrivasse a trenta – e aveva un’auto, una Ford Escort nera station-wagon, che si incastrava zero con la sua età. La musica alta, la solitudine appiccicata addosso, l’atteggiamento di chi si basta da solo e quel carrozzone lungo e nero, tanto strano quanto predestinato a viaggi favolosi, l’avevano fatto diventare il mio eroe, con il blues che ai miei occhi aveva preso la forma della sua persona.

Poi un giorno qualcuno bussò alla porta.

«Buongiorno, sono Carlo del terzo piano» entrava la voce da fuori.

Il nonno lo sorprese di lato, cacciando la faccia fuori dalla finestra: «Eccome no, quello della musica. Cosa vuoi?»

«Posso entrare? Fa caldo al sole…»

«Nemmeno per sogno. Cosa vuoi?»

«Sto aspettando una lettera ma non credo di riuscire a ritirarla, sono spesso fuori casa. Lei potrebbe magari intercettare il postino e ritirare la lettera per me…»

Era un esordio garbato e ragionevole ma destinato a schiantarsi contro il nonno: «Giovane, ti sembro il portiere del palazzo?»

«No, non mi sembra il portiere del palazzo. Grazie lo stesso».

«Quando dovrebbe arrivare questa lettera?» fa il nonno per rimediare.

«Che musica è quella che ascolti?» Con un balzo mi ero materializzato di fianco a lui, procurandomi un sensibile graffio sulla coscia dopo il salto olimpico della finestra.

Carlo era stupito ma non indietreggiò: «È blues. Ti piace?»

Io feci un gran “sì” muovendo la testa. Carlo guardò il nonno che con gli occhi pareva dire: «E adesso? come pensi di uscirne, giovane?»

Allora lui piano verso me: «Vuoi sentire qualche pezzo?»

Di nuovo il mio “sì” grande, accompagnato questa volta da un sorriso stampato in faccia.

Erano gli occhi di Carlo a interrogare silenziosamente il nonno: «Sta a te ora. Cosa intendi fare, Vecchio?»

«Ok. La lettera la prendo io per un’eccezione. Uccio ti voglio qui tra mezzora, se no salgo a prenderti» sentenziò il nonno e rientrò dalla finestra rapido come un paguro entra nella tana.



Di tana si sarebbe potuto dire anche parlando dell’appartamento di Carlo dove il disordine lo si scovava un po’ ovunque e allo stesso modo la polvere, che a casa mia non aveva mai il tempo di posarsi tra una lavata e l’altra della mamma. L’appartamento era piccolo ma si apriva ampio sul soggiorno e sulla ‘zona notte’, cioè nell’angolo che ospitava il letto con il comodino. Sul tavolo accanto a un cartone della pizza erano rimasti due vuoti di birra e il portacenere colmo di mozziconi. Alcuni fogli erano caduti per terra mentre quelli sul tavolo avevano assorbito in diversi punti l’unto della pizza. Sulla parete lunga, in mezzo alle due finestre, troneggiava il poster di Jimi Hendrix che, con lo sguardo perso, si accendeva qualcosa. Nell’angolo in basso a destra dell’immagine era appiccicata la foto di una ragazza sorridente, l’unica foto appesa in casa. L’ambiente in disordine rimaneva dopotutto accogliente e lui con me mostrava dei modi che non immaginavo, gentili e pieni di attenzione. Mi ha offerto da bere mentre si apriva una birra, poi si è seduto sulla sedia di fianco al giradischi e ha iniziato a sfogliare le copertine. Ho notato subito che parlava in maniera curiosa: ripeteva spesso le parole o alcuni pezzi di frase, restituendo ai discorsi, anche quelli banali, una dimensione epica.

«Allora, vuoi sentire il blues?»

«Sì! L’ho già sentito in verità, giù in cortile quando lo ascolti anche tu. Lo sentiamo tutti… cioè…» Balbettai qualcosa nella speranza che la mia puntualizzazione non l’avesse offeso ma lui senza badare alle mie spiegazioni estrasse il primo disco e lo mise sul piatto.

«È iniziato tutto con un uomo che vendette la propria anima al diavolo in cambio di un talento musicale magistrale. Da lui discese un genere intero. Fu assassinato che era ancora ragazzo, erano i primi del secolo e il blues era scarno, spigoloso e in alcuni luoghi pericoloso». Carlo teneva nella mano la manopola del volume e attendeva di finire l’introduzione per girarla verso destra. «Quel mondo nascondeva istinti poderosi, intrecciati col sangue, l’ingiustizia, il desiderio. La musica era carica di ritmi e significati ma i suoni erano semplici. In poco tempo il blues si impossessò di nuovi strumenti e, una volta maturato, entrò nei locali della grande città». Alzò il volume e partì un vocione, incalzato dalla banda, dalle percussioni, dal basso e dopo poco dall’armonica che fischiava forsennata. Carlo pestava col piede il pavimento e pestava e mi guardava. Rimasi frastornato dal rumore e io, stretto nelle spalle, se avessi potuto mi ci sarei infilato dentro. Era una sensazione nuova che mi colse impreparato. Sulla faccia comparve un sorriso imbarazzato, mi sentivo tirato per la maglietta e me ne volevo andare.

Carlo intuì che il passo era prematuro, abbassò e smise di tenere il tempo con il piede. «Amplificarono e elettrificarono ogni suono e il risultato fu quello che hai appena ascoltato». Poi stette in silenzio e spostò la puntina del giradischi sul pezzo successivo. Guardava la luce che veniva dal cortile e si accese una sigaretta portandosi alla finestra. C’era un’idea di libertà in quell’appartamento che mi rapiva, la musica forte, la sigaretta fumata sul davanzale, l’aria che mi veniva in faccia e asciugava il sudore cascato sulle tempie.

«Lo senti?» fece poco dopo. «Senti di cosa è fatta questa musica?»

Risposi di sì ma senza intendere.

«Questo è il punto. Il segreto di questo linguaggio, la nostra maledizione e il nostro destino».

«Quale segreto?» mormorai eccitato.

«Il segreto del blues».

Dal mio viso trapelava incredulità e Carlo proseguì: «Ti dirò qual è il segreto del blues, per me s’intende…»

A quel punto l’attesa era tale che avrebbe potuto dirmi che il blues era mio nonno e non mi avrebbe mosso di un centimetro.

«Questo modo di fare musica è ipnotico, entra dentro e ti segue. Se ne sta lì a guardare buono e non ti viene da mandarlo via. Quando diventa familiare tu stesso lo cerchi e lo trovi nei posti più impensati: al bar, al saggio della scuola, in macchina, mentre aspetti il turno in posta. Perché gira sempre un pezzo blues in radio o esce una nuova canzone che suona sulle dodici battute o ascolti un classico rock che viene da quella tradizione. Tutti, prima o poi, fanno blues, consapevolmente o meno. E allora, quando appare, è un amico che ti bussa alla spalla e dice che lui è lì con te e vi riconoscete subito, è uno spirito guida che non ti lascia più solo». Terminò guardando fuori dalla finestra, senza rivolgermi lo sguardo.

«E la storia della maledizione e del destino?», incalzai.

«La storia della maledizione e del destino è facile, a questo punto. Solo pochi sentono realmente il blues. Molti rimangono indifferenti e nessuno bussa loro alla spalla. Questi non sentono il bisogno di ritrovare qualcuno. Solo chi ne ha bisogno lo ascolta davvero e spesso è gente malinconica. Il blues è tutto fuorché triste. Chi lo ama e lo capisce lo è, e condivide un destino e una maledizione.»

Ero superaffascinatissimo. L’idea di andar in giro da grande con un macchinone nero, pieno di solitudine e in cerca di spiriti, mi pareva pazzesco! La mia testa traboccava di entusiasmo.



«Uccio! Vieni, non farmi venir fin lì, muoviti».

Il nonno scandiva il tempo che si era concluso e io dovevo andare. Ringraziai, salutai e sgattaiolai via per la scala, con il cuore in gola per ciò che quel giorno mi era capitato. Il nonno era pensieroso, aveva la sensazione che quello del terzo piano fosse un tipo che bisognava tener d’occhio.

«Mica sarà frocio?» ripeteva in serata alla mamma. «Patrizia, pensaci! Lui viene, bussa, porta a casa propria Uccio e gli dice ‘ste cazzate sulla musica…»

Nel corso della cena avevo già provveduto a ripetere ogni sillaba pronunciata da Carlo e mi sentivo il discepolo del blues!

«Non l’hai mica fatto andar tu nel suo appartamento?» cercava di capire la mamma, contenta di vedermi entusiasta e divertita dalla faccia del nonno.

«È un bravo ragazzo, è solo un po’ triste e solitario» aggiungevo io e il nonno, poco persuaso dal mio slancio, chiosava: «Triste e solitario… ah beh allora faccio un passo indietro, porca puttana!»

«Papà, stai tranquillo, a me pare uno a posto e poi Uccio oggi ha fatto qualcosa di nuovo e interessante. Se ricapiterà andrà da Carlo per mezzora e quando lo chiamerai tornerà subito. Facciamo una cena tutti insieme e ci conosciamo meglio, ce l’ha la fidanzata?»

«Sì, credo» rispondo e preciso: «C’è la foto di una ragazza appesa al muro…»

«Blah! Potrebbe essere chiunque, la sorella, la cugina, la zia. Mi raccomando, Uccio, stai abbottonato e se c’è qualche problema urla che lo fracassiamo».

«Ma cosa fracassi!? Dai, papà!» e ci guardava e le scappava un sorriso che era il modo di darci dei baci e ringraziarci di essere la sua strana famiglia.

Dal giorno successivo sarei sempre stato da Carlo – almeno quando era a casa nel pomeriggio e fino a che non ricevetti per Natale un giradischi nuovo di zecca, con l’amplificatore, le casse e il necessario… e comunque ci vedevamo per scambiarci i dischi – e siamo diventati grandi amici. Anzi, forse più che amici eravamo cugini o fratelli perché ci separavano troppi anni per poter essere definiti amici. Il blues era il territorio comune ma io desideravo stare nel suo appartamento per respirare il sapore di libertà e crescere prima degli altri del cortile, mentre lui, schivo con chiunque incontrasse nel palazzo, mi parlava di musica, di chi ti giudica dando un’occhiata, del lavoro e di quelli che vivono per lavorare. Con la sua famiglia non andava d’accordo, diceva che aveva finito di rendere conto alle persone che di lui se ne fregavano. I genitori non erano mai venuti a trovarlo, né Carlo era andato da loro, pure se Firenze, dove abitavano, era vicino in automobile. Aveva una sorella a Roma che si era sposata presto e aveva avuto dei figli e questo fatto lo faceva sentire ancora più lontano e solo.

Mi parlava della sua ragazza che era spesso via perché faceva l’università a Pisa. Il loro era un rapporto strano, litigavano di frequente e io sapevo di lei solo quando mi raccontava che avrebbe voluto farci la pace. Lei volava sulle cose con naturalezza, in sintonia con la sua età, gli impegni e le aspettative degli altri. Lui la rincorreva e disprezzava quelle scelte e quei modi perfetti che lo facevano sentire inadatto. Le urlava al telefono e lei spariva per un po’, poi le chiedeva scusa, perché l’amava, e Lucia scompariva dai miei radar.

In fondo, pensavo, l’esistenza di Carlo non avrebbe potuto che esser raccontata con un giro di blues, così solitaria, ammaccata e benedetta da quella musica. Delle sue questioni non scucivo parola con nessuno perché mi onorava che avesse scelto me per custodirle. Avevo intuito che chi gli stava intorno viveva solamente il suo modo di girovagare sulle ovvietà e intervallare a quelle infiniti silenzi. Faceva eccezione Renato, che nominava quando raccontava delle sue serate e che, per questo, non sono mai riuscito a incontrare. Si trovavano direttamente al bar o in centro e, se capitava che lui passasse da Carlo a notte fatta, per me era tardi e dormivo da un pezzo. Era il suo compagno di concerti e bevute e gli voleva un gran bene. Una volta lo andò a recuperare a piedi chissà dove perché doveva guidare la sua auto. Incrociai Carlo nel cortile la mattina dopo, mentre uscivo per andare a scuola. Era zuppo fin nelle ossa dal momento che quella notte aveva diluviato e si vedeva che non aveva voglia di dare spiegazioni. Scomparendo nella scala del palazzo, mi disse che Renato era stato male e fece segno come per un disturbo alla pancia…

A me parve una versione bizzarra, anche perché i numerosi adagi del nonno a riguardo mi avevano sempre fatto ridere, ma non indagai oltre. A ogni modo trovai quella storia un bel esempio di amicizia e, da quel giorno, imparai a considerare i pasticci della pancia con maggior serietà.