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Collana Nero Inchiostro

UNO Mezzanino, appartamento 3

Giovedì, 14 febbraio 2008

Lo vide, dalla strada, attraverso la fnestra del bar. Stava giocando a carte con altri tre nonni, circondati da altri ancora che facevano da spettatori. Lo riconobbe subito, nonostante i capelli fossero diventati bianchi e si fosse fatto crescere la barba. Era l’anima del bar, rideva e faceva ridere, ogni mano di carte era accompagnata da commenti che gli altri accoglievano festosi. Tuttavia, di tanto in tanto, si lasciava andare a violente lamentele condite da colpi di tosse. Era sempre il solito stronzo.

Ogni cosa colpiva Balasch alla bocca dello stomaco. Gli scherzi, le lamentele, le grida gli erano ancora familiari venticinque anni dopo e, lentamente, prendeva coscienza di un altro Balasch, bimbo e antico, che piangeva e si faceva piccolo piccolo. Ma da tempo aveva sconftto la paura che gli provocavano i violenti e voleva che fosse ben chiaro. Tuttavia, la vocina dentro di lui lo esortava ad andarsene.

«Antoni, vuoi che ci chiudano il bar o cosa?» gridò il proprietario vedendo il vecchio accendersi una sigaretta.

L’uomo, di una magrezza malata, si alzò con un’espressione disgustata, calpestò la sigaretta e si diresse verso il bagno, brontolando sottovoce.

*

«Senti, nen, (nen= “ragazzo” in catalano, ma si usa indifferentemente tra amici e con le persone di famiglia. [N.d.T.])» gli aveva detto lo zio qualche giorno prima, «devi parlargli. Devi affrontarlo, devi perdonarlo».

«Neanche a parlarne! Guardi troppi video di terapisti».

«Tuo padre è così, in gran parte per la vita che ha avuto. Tu sei come sei, per quello che hai vissuto. Hai un brutto carattere, come lui. Anche se non lo accetti, per certi versi siete uguali».

*

Ed eccolo lì, nel quartiere Fondo di Santa Coloma, dove aveva giocato, studiato ed era cresciuto. Dove aveva sofferto per molto tempo fnché sua madre, lui e la piccola Clara erano fuggiti dall’uomo che voleva affrontare.

Si sedette al bancone, ordinò una birra e pagò. Mentre aspettava che il padre tornasse, a ogni sorso che mandava giù la vocina dentro di lui insisteva, come un mantra, a farlo andare via.

Gli squillò il cellulare e, quando vide chi lo stava chiamando, uscì in strada per rispondere. Lo reclamavano la sergente Ros e una giovane donna morta all’Eixample.

Dalla strada lo vide tornare al tavolo e mandare a quel paese il proprietario del bar che lo rimproverava di aver fumato nel bagno. Decise di lasciar perdere per il momento. Spinse energicamente il suo corpo alto, snello e atletico verso l’auto di servizio che aveva preso in prestito in Commissariato. Avviò il motore, accese la sirena e il piccolo ffone che era in lui gliene fu grato.

Pasqual Balasch lasciò il quartiere Fondo a tutta velocità, avvolto da insicurezze che gli venivano da lontano.

*

Erano le sette e mezza di sera quando parcheggiò in un angolo sul lato destro dell’Eixample, al confine con il quartiere di Gràcia. Il freddo gli fece sistemare sciarpa e cappotto. Si identifcò davanti al poliziotto in uniforme, che lo fece passare attraverso la porta di legno pregiato e vetro multicolore. Una volta entrato, vide un ascensore di ferro pieno di fronzoli e legno lucido, grandi scale di marmo e pareti dipinte di rosa, azzurro cielo e verde acqua.

«Pasqual!» gridò Rafael Ramirez, un agente della Omicidi di dieci anni più giovane di lui, mentre scendeva le scale con un taccuino in mano, vestito con un lungo cappotto, giacca e cravatta.

Una volta al piano di sotto, gli chiese di seguirlo lungo un percorso che ritenne insolito. Dietro l’ascensore c’era un corridoio stretto e buio che conduceva al cortile interno del condominio, poi bisognava salire per una vecchia scala esterna di metallo, che immaginò dovesse essere stata la scala di servizio un tempo.

«La sergente?» chiese mentre saliva i gradini due alla volta. «È al piano di sopra».
Raggiunto il mezzanino, si fermò per qualche secondo a osservare il cortile. Quello che era stato il balcone interno di un immenso appartamento si era sbriciolato, per via della speculazione edilizia, in minuscoli appartamenti. Nel cortile del condominio, recuperato come giardino pubblico, spiccava un albero di cocco che arrivava fino ai primi piani. Sembrava voler scoprire le intimità dei vicini che, a loro volta, popolavano finestre e balconi, curiosando spudoratamente l’andirivieni dei poliziotti. Sulla porta d’ingresso del terzo appartamento del mezzanino, una stanza d’accesso al balcone riconvertita, Rafa lo stava aspettando.

Diede un’occhiata all’interno dell’appartamento e vide gli agenti della Scientifca.

«Chi è la vittima?»

«Verònica Prats, nata a Barcellona il 2 agosto del ’75» rispose Rafa, guardando il taccuino. Secondo la carta d’identità, risiedeva in Carrer Llibertat, 53 bis.

«Chi l’ha trovata?»

«Salvador Tort, dell’ottavo appartamento del mezzanino. A quanto pare, quando ha visto la porta aperta, ha inflato la testa per salutare Verònica e ha visto qualcuno in fondo alla stanza. L’uomo, sulla quarantina, era fermo davanti al letto e sembrava borbottare qualcosa. Improvvisamente si è reso conto che Tort lo stava osservando e si è precipitato fuori. Passando davanti alla porta ha detto, secondo il testimone con un forte accento sudamericano, “è colpa mia” ed è scappato via. Stiamo parlando delle sei e mezza circa».

«È in grado di riconoscerlo?»

«Dice di sì. L’ho spedito in Commissariato per fare l’identikit».

«Nient’altro?»
«Secondo il vicino, non erano nemmeno due mesi che era qui. Una vicina dice di aver notato, mentre usciva dall’ascensore, un uomo ben vestito con un cappotto lungo che si dirigeva verso l’appartamento, ma di non averlo visto in faccia. Erano circa le sei di sera».

Montse Martí, responsabile della Scientifica, si avvicinò. «Come sta andando?» chiese Balasch.
«Entra, non ci sono molti casini. Ester è dentro».
Salutò la sergente Ester Ros, quarant’anni scarsi, con un completo, una mezza coda e un sorriso amichevole.
«Torno a intervistare i vicini» disse Rafa.
Balasch indossò calzari e guanti ed entrò con cautela. L’appartamento era una successione lineare di stanze senza corridoio. Iniziava con un vestibolo trasformato in cucina con appena lo spazio sufficiente per quattro fornelli a gas butano, un frigorifero e quattro piccoli armadietti di legno, le cui cerniere cominciavano a soffrire di Alzheimer metallico. Gli alimenti freschi, pochi, cercavano di sfuggire alla data di scadenza all’interno di un frigorifero alto mezzo metro. Sul pavimento, piccoli frammenti di vetro sembravano indicare il metodo di ingresso dell’aggressore. All’interno del bidone della spazzatura c’erano i resti di un vaso di ceramica bianca e blu, alcuni macchiati di rosso.

«È sangue» aggiunse Montse.

Non dovette fare più di due passi per invadere la sala da pranzo, dove un tavolo rotondo con quattro sedie fagocitava uno spazio avvolto da una carta da parati foreale. Sul tavolo c’erano una busta di plastica della spesa e una borsa a mano abbandonate. Il televisore, piccolo, di colore verde mela e con un’antenna cornuta, occupava una posizione presa in prestito in un angolo della vecchia e solenne credenza. Solo una foto, di un’adolescente sorridente che abbraccia una donna anziana, dava un po’ di colore allo spazio decorato in bianco e nero. Dall’altra parte della sala da pranzo, in un angolo, la porta del bagno sfuggiva al campo visivo, preannunciando la piccolezza della toilette.

«Pasqual» salutò la sergente, per poi rivolgersi alla capo della Scientifca. «Montse, facci un riassunto».

«I resti di vetri rotti alla porta farebbero pensare a una rapina, se non fosse che non sono stati portati via né soldi né telefoni cellulari»

«Chiamate recenti?» chiese Balasch.

Per tutta risposta, Montse mostrò una busta di plastica contenente un telefono visibilmente rotto.

«Impronte?»

«Non abbiamo ancora finito, ma è sorprendente che non ce ne siano sulla serratura della porta d’entrata, sul divano o sul telefono».

Allungò il braccio verso la credenza e, chiedendo il permesso con gli occhi, prese un quaderno a spirale. Sulla copertina c'era scritto “Storia dell’arte” e conteneva quelli che sembravano appunti scolastici, tutti scritti con una calligrafa chiara e di colore diverso. Incastrati nella spirale c’erano dei resti di carta. Guardò di sbieco i fogli bianchi e ne trovò uno su cui vide i solchi di una scritta fatta sul foglio soprastante.

«Che c’è?» chiese Montse.

«Non ne sono sicuro. Secondo te, qui sopra hanno scritto “Vostro Onore”?»

Montse annuì con un sorriso sulle labbra e prese nota.

La camera da letto era l’unica stanza con dimensioni accoglienti: ci stavano senza problemi un letto matrimoniale con testiera in legno, un armadio moderno e due comodini coordinati. Gli sembrava che quello spazio senza finestre conferisse un triste senso all’intero appartamento: una tana in cui nascondersi dai pericoli del mondo esterno, un luogo transitorio in cui curare le ferite fino a quando non fosse riuscita a tornare alla vita con rinnovate forze. Ma quella stazione di passaggio era diventata il capolinea per la giovane donna che giaceva morta sul letto.

Il corpo era posizionato in modo così equilibrato da sembrare innaturale. Occupava la metà del letto più vicino alla porta e ricordava una moderna Biancaneve in attesa del bacio del Principe Azzurro. Tuttavia, il suo volto era senza speranza: la guancia sinistra mostrava evidenti segni di violenza. Quel volto aveva smesso di sorridere da tempo e non lo avrebbe fatto mai più.

A quel punto, vide un vecchio armadio e il suo io d’infanzia rabbrividì. Il legno di quercia, due ante con gli intarsi, un cassetto sul fondo, tiranti e serratura in metallo. Pressoché identico a quello che si trovava nella stanza dei suoi genitori. Dove suo padre lo rinchiudeva ogni volta che lo puniva. Quel pozzo spaventoso in cui aveva condiviso lunghi momenti di buio e odore di naftalina con cappotti e scatole delle scarpe. Da dove sentiva la madre ribellarsi al marito senza mai riuscirci.

Aprì l’armadio e, per un attimo, credette di vedere un marmocchio in pantaloncini, seduto al buio, con il viso rigato dalle lacrime. Si girò verso la vittima e si chinò a guardarla dall’altezza di un bambino. Nella parte posteriore della retina, per un solo istante, vide la madre svenuta e distesa sul letto. Ed escluse defnitivamente l’ipotesi di un ladro omicida.

L’entourage giudiziario riempì la stanza. Balasch fece una smorfia quando vide il giudice Peláez, un uomo con molto buon senso, ma un vero osso duro quando si trattava di approvare mandati di perquisizione o intercettazioni. Lo seguiva Ximo Boronat, il medico legale, con cui da tempo ave- va una relazione molto vicina all’amicizia.

La sergente li aggiornò mentre il segretario del medico legale prendeva appunti febbrilmente. Quando il giudice diede l’autorizzazione, si misero in un angolo per lasciare lavorare il medico legale. Balasch ringraziò mentalmente per l’estrema delicatezza con cui Ximo maneggiava la parte posteriore del capo di Verònica. Invece, le altre cose che vedeva lo lasciavano simpaticamente preoccupato. Da una parte, la posizione inclinata di Ximo gli faceva scivolare gli occhiali sul naso, costringendolo a sollevare il mento per evitare che gli cadessero di nuovo. Dall’altra, il dubbio gusto nel combinare gli abiti del medico: pantaloni di velluto a coste marroni, gilet di lana a rombi piccoli e camicia a maniche corte.

«Il crimine è stato commesso nel pomeriggio, al massimo tre ore fa» disse. «Ha ricevuto un forte colpo al viso, ha un trauma nella parte posteriore del cranio e direi due vertebre del collo rotte».

Balasch visualizzò un uomo prendere a pugni il viso di Verònica, lei che perdeva l’equilibrio, gli parve persino di sentire la frattura delle vertebre cervicali. Un piccolo brivido gli corse lungo la schiena quando vide il volto di sua madre al posto di quello di Verònica.

«L’hanno colpita, è caduta e si è spezzata il collo» disse Balasch, indicando una macchia di sangue sul comodino.

«Come è fnita sul letto? È stata spostata?» affermò, più che chiedere, la sergente.

«Oltre a questo» disse Ximo, che stava osservando l’interno dell’orecchio sinistro, «c’è del sangue qui che non mi sembra provenire dalla ferita sulla nuca».

Lo sguardo di Balasch esigeva senza dover chiedere nulla.

«Potrò dirvi di più...»

«... quando avrai fatto l’autopsia» disse Balasch, cercando di alleggerire i toni per scrollarsi di dosso il disagio.

«Domani alle undici» informò Ximo.

Ripassarono con il giudice l’elenco delle azioni da intraprendere: interrogare i vicini, verificare l’alibi di Tort, recarsi all’indirizzo indicato sulla carta d’identità, esaminare l’identikit, il cellulare, il quaderno, il vaso rotto e il sangue nell’orecchio.

Prima di andarsene, Balasch diede un’ultima occhiata alla vittima. Doveva andare a trovare la madre prima possibile.