Collana Giallo Grano
Testamento
Io
sottoscritto, Fabrizio Borgogna, nato a Roma il 10 settembre 1905,
nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, volendo disporre del
mio patrimonio per il tempo in cui avrò cessato di vivere, redigo il
presente testamento olografo precisando in maniera inequivocabile le
mie ultime volontà.
Istituisco mio erede universale il Sig. Giulio Von Heinebeck, nato a Berlino il 02 settembre 1933. Dispongo che al medesimo venga data lettura dello scritto qui unito, che ho personalmente redatto nell’anno appena trascorso, affinché abbia modo di comprendere vicende relative alla mia famiglia che ne hanno segnato la storia, la tenuta e l’unione.
In memoria di mia moglie, Susan J. Clarke, lascio, a titolo di legato, la somma di dollari centomila al New York Presbyterian Hospital, affinché potenzi la ricerca sulla salute della donna e della vita nascente.
Nomino esecutore testamentario il Sig. Tommaso Primucci, già conte di Macerata e marchese di Poggio San Vicino, nato a Roma il 31 ottobre 1909. Dispongo che le eventuali spettanze di questi per l’attività di esecutore siano poste a carico della massa ereditaria e liquidate in suo favore nel più breve tempo possibile.
Scrivo e sottoscrivo il presente atto in Roma il 30 dicembre 1975.
In fede
Fabrizio Borgogna
Caro Giulio,
Sono nel mio studio qui a Roma, e ascolto Amapola, una canzone che per me ha significato molto. Ho aspettato a lungo prima di decidermi a mettere insieme questo scritto, perché significherà rivelare vicende non sempre edificanti; ma oggi che sono vecchio e solo, penso sia importante raccogliere i miei ricordi perché siano utili a ricostruire la storia di una famiglia segnata da una Storia più grande, che ne ha spesso condizionato il percorso, e comunque non meno travagliata di altre che hanno attraversato periodi complessi come il Ventennio e la seconda guerra mondiale. Rispetto agli altri noi avevamo un privilegio, ovvero la ricchezza, ma anche una deficienza: la disarmonia. La nostra era una famiglia in vista, che all’esterno appariva eccellente e impeccabile, ma quello che era considerato un diamante pregiatissimo costituiva, invece, una pietra imperfetta: opaca, di caratura modesta e piena di inclusioni.
Ne fu una prima prova il matrimonio di mia sorella Allegra, che il 30 settembre 1930 sposò a Roma il barone Ludovico Maronigo, patrizio veneziano. E se la nostra tradizione familiare aveva sempre visto combinare legami vantaggiosi, queste nozze non facevano eccezione, dal momento che la sposa portava una generosa dote e lo sposo un antico blasone. Ma avevano vent’anni: immaturi e capricciosi quelli di lei, viziosi e irriverenti quelli di lui, e soprattutto troppo divergenti per preludere a un futuro serenamente condiviso…
PARTE PRIMA
1930
Capitolo 1
Arrivai
a Villa Quasso, lascito di mia nonna paterna, Donna Isabella, nel
primo pomeriggio del 29 settembre 1930 con mia moglie Susan. Se
avesse potuto, mia nonna sarebbe uscita dal suo sacello per
materializzarsi di fronte a mio padre, che acconsentiva al matrimonio
di Allegra in quella famiglia di debosciati, per inseguirlo con uno
dei mattarelli da pasticcere delle cucine del piano interrato. E a
sua nipote avrebbe requisito il girocollo di diamanti che le aveva
segretamente destinato, a scapito di nostra cugina Elisabetta. A suo
tempo, infatti, mia nonna disponeva di una poderosa dotazione di
monili storici, che però si era andata assottigliando dopo la morte
del marito, a causa della vita dissoluta di mio zio Vittorio. Per
evitare di finire per perdere anche i pezzi migliori, quindi, prima
di passare a miglior vita aveva organizzato una sorta di estrazione a
sorte in favore delle due nipoti, essendosi però prima premurata di
occultare i gioielli più preziosi per mia sorella, figlia del suo
figlio preferito. Una suddivisione equa operata da una donna dai
sentimenti bilanciati.
Mancavo dall’Italia da molti anni. Avevo trascorso un’infanzia felice a Roma, ma al momento degli studi superiori mio padre aveva stabilito che mi trasferissi negli Stati Uniti presso i miei nonni materni. Era un uomo tutto d’un pezzo Riccardo, mio padre: di educazione classico-militare, severo, rigido, anaffettivo, silenzioso. Convinto interventista della Prima Guerra Mondiale, si era guadagnato medaglie al valore come Ufficiale del Regio Esercito e non avrebbe mai osato macchiare il suo buon nome auto-infliggendosi delle ferite per ottenere congedi, o peggio disertando e rischiando l’arresto, come invece avevano fatto in tanti. Come era prevedibile, prima ancora che io diventassi adulto, aveva già pianificato il mio futuro nell’alta finanza, alla guida del fiorente istituto bancario che lui stesso aveva ereditato da suo padre, e suo padre dal suo.
Come molti industriali altoborghesi, componenti delle forze dell’ordine e membri delle gerarchie ecclesiastiche che avevano visto nell’ascesa di Benito Mussolini un’opportunità per espandere le proprie ricchezze, per acquisire ruoli nella burocrazia vecchia e nuova e per far trionfare i valori di ordine e patria-nazione contro i disordini sfuggiti al controllo dei governi liberali nel primo dopoguerra, nel 1919 mio padre Riccardo, nella sua veste di banchiere, aveva subito aderito alla costituzione dei Fasci d’Azione nella riunione di Piazza San Sepolcro. Era stato poi eletto deputato nei Blocchi Nazionali dei Fasci di Combattimento alle politiche del ‘21, e senza che fosse stato necessario andare a supplicare Cesare Rossi al Viminale, era stato tra i trecentocinquanta del Listone del ‘24. A suo merito posso dire che si è sempre tenuto lontano dagli episodi di violenza squadristica – a differenza di suo fratello – rifiutandosi ad esempio di prendere parte all’espulsione di Misiano da Montecitorio: il suo prestigio personale doveva restare intatto e la condotta irreprensibile. Ma quando il 9 novembre 1921 nacque ufficialmente il Partito Nazionale Fascista lui fu tra i primi a ottenere la tessera, sbandierando il dovere di ogni fascio di “accorrere in difesa dei supremi interessi della Nazione e dei suoi trentotto milioni di cittadini italiani”. Da allora, e molto prima dell’avvento dell’orbace, indossò sempre spontaneamente e quasi esclusivamente la divisa d’ordinanza del vero fascista: camicia nera, fez, pantaloni militari, pugnale, guanti neri all’occorrenza, e la giacca da Ardito con cui aveva fieramente combattuto durante la Grande Guerra.
Amico di Nicola Bombacci e di Michele Bianchi, e soprattutto grande amico di Ulisse Igliori, mio padre si era lasciato coinvolgere con un fervore al limite del fanatismo nell’organizzazione del piano insurrezionale; e per completare adeguatamente il quadro, aveva garantito il suo appoggio alla delegazione di industriali capeggiata da Gino Olivetti che la sera del 27 ottobre 1922 lasciò a Mussolini sulla sua scrivania a Il Popolo d’Italia una valigia con venti milioni di lire. Infine, il giorno della Marcia su Roma era stato tra quelli alla testa della colonna proveniente da Santa Marinella, fiero di poter dare così il suo contributo all’avvento della “legge nazionale del fascismo”.
All’insediamento del Gabinetto Mussolini aveva subito ricevuto incarichi di prestigio. Aspirava alla nomina di Ministro delle Finanze, e quello gliel’aveva anche promessa, per poi sfilargliela da sotto al naso all’ultimo minuto, confidando nel suo servilismo indefesso, e a lui non era piaciuto vedersi preferire De Stefani, suo avversario di lunga data. Ma si era messo in attesa e, convinto che anche il suo momento sarebbe arrivato, si era inserito nel codazzo del Duce, accontentandosi per ora delle cariche di Sottosegretario ai Lavori Pubblici e di membro del supremo organo del Gran Consiglio del Fascismo, nomine che compensava con inchini dall’angolazione millimetrica, saluti romani perfettamente inclinati, firme e approvazioni indiscusse ove necessario, scodinzolando sempre meravigliosamente.
Riccardo Borgogna si appassionò totalmente all’ideologia, e non vedo come avrebbe potuto essere altrimenti se questo era il sistema politico che avrebbe favorito quelli come noi, che nei milioni sguazzavano già. Senza contare che il camerata aveva generato due figli maschi sani e robusti, di cui uno, ovvero io, già disponibile a servire la causa patria e l’altro in formazione nel migliore collegio in Svizzera; poi, aveva anche una figlia, destinata ad accrescere il popolo italico allevando una progenie di prodi combattenti. Nessuno più di lui rendeva un grande servizio al Paese.
La posizione di Sottosegretario aveva consentito a mio padre di lucrare su quell’affare dei residuati bellici della Prima Guerra Mondiale che invece era stato pensato a vantaggio di mutilati, invalidi ed ex combattenti. Questo gigantesco traffico di materiali – divise, carburanti, veicoli, fucili, munizioni, mitragliatrici, granate… – venduti a un prezzo ridicolo dallo Stato a identità fittizie e poi da queste ceduto all’estero come nuovo, permise a mio padre di aumentare i suoi già considerevoli profitti annui del quaranta per cento; una cifra sbalorditiva per quei tempi. Sempre in merito alle malversazioni, aveva acquisito immobili a Milano Duomo, Venezia San Marco, Via de’ Tornabuoni a Firenze, Portofino e Forte dei Marmi. La frode era nota a tutti, anche ai suoi degni compagni di Partito, nonché allo stesso Duce, che se non si metteva a disturbare i pesci piccoli non si vede perché avrebbe dovuto farlo con i fedelissimi.
A mettere i bastoni fra le ruote a tutti questi dubbi servitori dello Stato, tanto, ci pensava Matteotti. A dirla tutta, mio padre lo stimava: vedeva in lui la perseveranza e la meticolosità che avrebbe voluto in tutti i suoi collaboratori, me in testa. Ma quel naso assillante ficcato in questioni pericolose che proprio non lo riguardavano non poteva essere tollerato molto a lungo. Il giorno che seguì il rapimento fu per mio padre particolarmente complesso: come tutti i gerarchi prominenti, era guardato con terrore e disprezzo in quelle ore. Non ne uscì pulito neanche lui, benché non fosse coinvolto in alcun modo nelle sorti del deputato socialista.
Alla luce di questo quadro, il 3 gennaio del ‘25 Riccardo Borgogna non poteva non essere tra quelli che portarono il Duce in trionfo dopo il discorso alla Camera: la sua maniera di dare ordini a tutti e volere chiunque al suo servizio, a ogni livello – dal familiare al professionale – adesso era avallata perfino dall’ordinamento giuridico: d’ora in avanti, dittatura dentro e fuori casa. Per come la vedeva lui, il dispotismo era l’unica maniera per riuscire a far lavorare gli italiani e del resto non perdeva occasione per definire i suoi stessi collaboratori come una massa di pressapochisti e scansafatiche.
Mi vergogno ancora del modo in cui mio padre si è comportato durante il Ventennio, della sua indifferenza davanti alle violenze gratuite che i fascisti elargivano ogni giorno, nonché per l’amministrazione disonesta e le ruberie, ma la mia affermazione è ricca di ipocrisia, perché io stesso ho ottenuto lauti guadagni dalla sua condotta. Abbiamo lasciato che Duce e Fascismo comprassero il nostro onore con moneta sonante, e non è mancato chi mi abbia rinfacciato tutto questo, a torto o a ragione. Non chiedo di essere assolto adesso, ma all’epoca non era così facile capire e scegliere di dissociarsi, soprattutto per noi che maneggiavamo enormi quantità di denaro.
Avevo appena tredici anni quando misi piede negli Stati Uniti per la prima volta. Mio nonno materno mi introdusse subito in società, e la mia compagnia già dall’adolescenza era quella dei rampolli milionari che avrebbero monopolizzato i settori dell’acciaio, del petrolio e dell’editoria. Le donne a quel tempo assaporavano le nuove libertà dei ruggenti Anni Venti: dismesso il busto, brillantini, lustrini, bocchini e capelli tagliati alla maschietto erano diventati quasi una divisa per le ballerine snodate di charleston, per quelle seducenti di tango, e per quelle agili di swing, nei night club fumosi della Grande Mela. Noi fumavamo in loro compagnia, per poi volare in Borsa al mattino seguente, con il colletto della camicia inamidato e i capelli lucidi e ben pettinati. Ereditiere già promesse e soubrette squattrinate in cerca di una posizione si sfidavano a colpi di piume e ciglia finte, per rendere quel desiderio di appagamento del primo dopoguerra non solo una ribellione, ma anche una via spianata verso un promettente futuro.
Nel 1928, guidato dal sacro fuoco del capitalismo e dall’occhio vigile di mio padre da oltreoceano, avevo inaugurato la prima filiale della nostra banca sul suolo americano. Di lì a poco entrai nella rosa dei più quotati in Borsa e a pieno titolo nell’alta società newyorkese. Ero anche un gran bell’uomo, ora che ho perso tutto il fascino lo posso dire: sempre ben vestito, pettinato, distinto, col fazzoletto di seta profumato nel taschino della giacca sartoriale. Il resto lo faceva il mio nome italiano. E mentre percorrevo le strade di New York in quegli anni, intorno a me venivano su, a velocità portentose, i più importanti grattacieli di Manhattan.
Durante la lunga era di dominio repubblicano, la cui propensione al liberismo economico era andata largamente a nostro vantaggio, ricevetti nel mio ufficio la visita di alcuni emissari del partito che mi proponevano di candidarmi, ma mio padre disapprovò fermamente, sostenendo che in America eravamo noi a doverci servire dei politici e non loro di noi. Il nostro mestiere era un altro. Ed era grazie a quel mestiere che le nostre frequentazioni nei due continenti comprendevano magnati dell’industria siderurgica, editori, petrolieri, senatori, firme prestigiose del giornalismo d'oltreoceano, autorità politiche e mecenati d’arte, che spesso coincidevano con molte di queste figure. Ed era sempre grazie al nostro mestiere che vivevamo nel lusso e nell’agiatezza.
Scendevamo da Lincoln nere lucidissime guidate da autisti col berretto, alloggiavamo in incognito in alberghi di lusso, cenavamo nelle salette riservate dei ristoranti più esclusivi. Per parte mia, partecipavo a serate lunghe e fumose, a interminabili riunioni tra uomini d’affari, a cene asfissianti in smoking, con argenteria lustrata e servitù irreprensibile, a dissertare sui massimi sistemi e sul futuro politico-economico dell’umanità. Avevo avviato anche una galleria d’arte contemporanea che incoraggiava l’ascesa di nuovi nomi e fungeva da salotto per le signore bene. Ma godevo della stima di tutte queste personalità soprattutto per un motivo: perché per non mettere a rischio la mia ascesa, ero ben deciso a non portarmi a letto nessuna delle loro mogli, con grande rammarico delle stesse.
Certo, avevamo dovuto sporcarci le mani, sarebbe stupido negarlo, ma da che mondo è mondo i meccanismi che legano imprenditoria e politica è sempre stato necessario oliarli adeguatamente, per farli funzionare. Così come negoziare, anche in sedi non pubbliche e in modi non sempre leciti, con i vertici dei sindacati e delle amministrazioni. Sottrarsi a questo postulato significava veder sfumare lauti guadagni ed essere estromessi dai più influenti circoli, a vantaggio di altri che, senza porsi gli stessi scrupoli, avrebbero percorso la medesima via. Gli affari spesso costringono a sacrificare massicce dosi di onestà. Ma non chiederò scusa per questo: è un passaggio necessario, se si vuole giocare all’alta finanza.
Alla luce di questo quadro, penso sia facile immaginare le perdite ingenti che subimmo in ragione del crollo della borsa di Wall Street del 29 ottobre 1929. Milioni e milioni di dollari di investimenti divennero carta straccia in poche ore. Molti dei finanzieri americani che persero i loro poderosi capitali erano miei amici, le colossali fortune che si volatilizzarono in un batter di ciglia confinavano con le nostre. Ai matrimoni di rampolli ed ereditiere dai cognomi altisonanti in procinto di giurarsi amore eterno, sfumati sulle soglie degli uffici dei rispettivi avvocati, avrei dovuto partecipare anch’io, col mio abito migliore.
Mio padre mi contattò con urgenza da Roma: “Crollo Borsa Wall Street DVCE minimizza effetti su economia italiana STOP Comunicare conseguenze su nostre finanze STOP Massima priorità”. Il telegramma trasudava tensione. La stampa parlava già di suicidi a rotta di collo. Il momento era tragico e io non avevo la lucidità necessaria per fare stime precise: sapevo solo che il danno era stato considerevole e che dovevamo trovare una soluzione praticabile in tempi rapidi. Mi sentivo come se un pesante panno nero si fosse adagiato su tutto ciò che ero vivacemente stato fino a quel momento: giovane, rampante, esuberante, lanciatissimo. Per un istante ebbi perfino il dubbio di non essere davvero tagliato per gli affari.