Collana Blu Oltremare
I giovani e i giovani
[...] In generale negli anni settanta la scuola aveva un orario ridotto rispetto a quello odierno; non c’erano i “rientri”, poche erano le scuole che tenevano lezioni anche dopo pranzo, per cui i ragazzi avevano il pomeriggio libero e, terminati i compiti, dovevano inventarsi qualcosa per arrivare all’ora di cena.
La differenza principale con i giorni nostri è che allora la televisione non aiutava molto. I programmi per i ragazzi erano limitati a un paio d’ore a metà pomeriggio (negli anni sessanta ancora meno) e fino alla seconda metà degli anni settanta ci si doveva accontentare dei programmi RAI, che disponeva solo del primo e del secondo canale (la terza rete RAI cominciò le trasmissioni in via sperimentale nel 1978 e divenne definitiva solo alla fine del 1979). Inoltre le televisioni private, ai loro primi passi, spesso non proponevano programmi per ragazzi e non erano nemmeno nell’immaginazione collettiva i canali satellitari o la tv digitale. I computer erano riservati solo alle istituzioni scientifiche (una macchina con la potenza di calcolo di un pc moderno allora occupava un’intera stanza), mentre le consolle per giocare con lo schermo televisivo non erano ancora state inventate e i videogiochi, che stavano cominciando a diffondersi, erano installati solo nei bar. I vari Facebook, Twitter, MySpace e la messaggistica in tempo reale si svolgevano per strada. I ragazzi uscivano per incontrare gli amici e per conoscerne di nuovi.
Nelle città di provincia, continuando un’abitudine che già avevano i genitori e i nonni prima di loro, i giovani si riversavano per le vie del centro e passeggiavano chiacchierando con gli amici, riunendosi in compagnie, in inverno frequentando i bar per una cioccolata o, i più spregiudicati, per qualcosa di più forte. Una compagnia di amici comprendeva persone che si riconoscevano negli stessi interessi, le stesse abitudini, non di rado nelle stesse idee politiche, anche se espresse in maniera elementare; spesso una compagnia di adolescenti nasceva a partire da alcuni compagni di scuola, poi inglobava le nuove conoscenze, l’amico dell’amico, quello che giocava a calcio con te o quello con cui andavi a lezione di inglese o a ripetizione di matematica. Era abbastanza facile stringere nuove amicizie, essendo l’età dell’adolescenza quella in cui si è più aperti alle nuove conoscenze o esperienze. Se da un lato ciò era positivo, per l’atmosfera quasi famigliare che si respirava (in cento metri di strada poteva capitare di fermarsi a parlare con una decina di persone diverse), dall’altro lato tale voglia di novità poteva essere pericolosa se i nuovi incontri, soprattutto quelli che avevano qualche anno in più, non seguivano, per così dire, la retta via.
[...]
I giovani e la televisione
Per i programmi televisivi degli anni settanta
occorre fare alcune distinzioni, tra le trasmissioni prima e dopo
l’avvento del colore, tra televisione prima e dopo la comparsa
delle tv private, tra la televisione con manopole e pulsanti e
l’arrivo del telecomando.
Parlare
oggi a un ragazzo di televisione a colori non fa alcun effetto,
poiché non ha mai visto nulla di diverso, ma nella seconda metà
degli anni settanta chi poteva affermare “ho la televisione a
colori” era invidiato e rispettato. In realtà l’Italia avrebbe
potuto avere trasmissioni a colori qualche anno prima, ma la politica
ritenne che non fosse ancora il momento giusto; in particolare,
l’onorevole del Partito Repubblicano Italiano Ugo La Malfa paventò
l’eccessivo costo dell’innovazione, soprattutto per le famiglie,
che probabilmente si sarebbero indebitate per acquistare i nuovi
apparecchi: in un periodo di congiuntura economica quella non sarebbe
stata una buona idea.
Una
prima dimostrazione dell’effetto del colore in tv fu dato dalle
Olimpiadi di Monaco del 1972, in cui alcune gare erano mandate in
onda a colori in via sperimentale. Come era già successo negli anni
cinquanta, alcuni bar, locali pubblici e i negozi di elettrodomestici
si dotarono immediatamente di nuovi apparecchi televisivi e
trasmisero le immagini degli atleti come non si erano mai viste. E
come negli anni cinquanta si vedevano assembramenti davanti alle
vetrine dei negozi per ammirare la grande novità. Ancora oggi
qualcuno ricorda le gare di nuoto, con il blu delle piscine che
catturava gli spettatori lasciandoli quasi storditi.1
Dopo
le Olimpiadi le trasmissioni tornarono al bianco e nero, ma ormai il
sasso nello stagno era stato lanciato e la gente aspettava con
impazienza il momento in cui anche in Italia sarebbe stata introdotta
la novità. Si arrivò così al 1975, quando iniziarono regolarmente
le cosiddette “prove tecniche di trasmissione”, una serie di
immagini a colori, fisse e in movimento, trasmesse tutti i giorni a
orari stabiliti, con sottofondo di musica classica, in cui
periodicamente una voce fuori campo avvertiva che si trattava,
appunto, di “prove tecniche di trasmissione”. Tali immagini
avevano sì l’effetto di testare le apparecchiature RAI, ma anche
quello inconfessato di affascinare il pubblico e stimolarlo
all’acquisto dei nuovi televisori. L’aspettativa per il colore
era tale che, pare, qualcuno si sistemasse davanti alla tv negli
orari previsti per vedere prima un monoscopio a strisce verticali,
poi alcune immagini fisse (un bimbo tra i giocattoli, fiori vari,
ecc.) e infine brevi filmati con protagonisti alcuni pittori alle
prese con le proprie tele o il rappresentante di tessuti che mostrava
le stoffe ad avvenenti clienti femminili, o ancora una ragazza
orientale che ammirava i fiori nei giardini di Roma. Tutto
rigorosamente a colori, naturalmente.
Dal
1976 alcuni programmi furono trasmessi regolarmente a colori e le
Olimpiadi di Montreal di quell’anno furono di nuovo un ottimo
trampolino di lancio per la nuova tecnologia. Ormai non era più
possibile lasciare gli italiani senza televisione a colori, gli altri
paesi dell’Europa occidentale ne erano già provvisti e chi tornava
da viaggi all’estero aveva l’impressione di arrivare in un paese
retrogrado. Così a partire dal febbraio del 1977 tutte le
trasmissioni furono a colori e circa un anno dopo anche tutti gli
spot pubblicitari seguirono la stessa sorte.
Per
la verità qualcuno ricorda un esperimento di tv a colori di dieci
anni prima, messo in atto a Torino nel gennaio del 1967. Alcuni
volonterosi collaboratori della società Video Color installarono una
cinquantina di televisori a colori nella stazione ferroviaria di
Porta Nuova e un centro di produzione nelle cantine di un vicino
albergo. Le trasmissioni avvenivano via cavo, poiché l’etere era
dominio RAI, mentre la trasmissione via cavo non era regolamentata e,
quindi, non espressamente vietata. Con una serie di cavi che
partivano dall’hotel e raggiungevano tutti gli apparecchi fu
trasmessa per alcune ore al giorno una programmazione che comprendeva
informazione, intrattenimento, pubblicità e indicazioni per i
viaggiatori. L’iniziativa fu presto bloccata dall’intervento
delle ferrovie, che volevano rivedere i contratti pubblicitari, e
dalla questura, che voleva controllare permessi e documenti vari;
così della tv via cavo in stazione non se ne fece più nulla.
Si
dovette quindi attendere il 1977 perché la RAI iniziasse una
regolare programmazione a colori. E una delle prime trasmissioni a
beneficiare della novità fu Portobello,
condotta da Enzo Tortora, una specie di mercatino televisivo diviso
in varie rubriche, ma incentrato soprattutto sulle invenzioni e le
diavolerie che italiani pieni di iniziativa volevano far conoscere al
mondo. Enzo Tortora, prototipo di una televisione equilibrata,
elegante e mai urlata, ma a volte anche pungente e irriverente, era
già stato allontanato due volte in passato dalla RAI, per aver osato
mandare in onda nei suoi spettacoli numeri assolutamente non graditi
alla dirigenza di allora, molto vicina alla politica del tempo,
segnatamente alla Democrazia Cristiana. Tanto per dare un esempio
dell’influenza che aveva allora la politica sulla RAI, si può
ricordare che Tortora negli anni sessanta era stato cacciato dalla tv
di Stato per aver permesso ad Alighiero Noschese, imitatore allora
molto noto, di esibirsi nei panni di Amintore Fanfani (potente
esponente DC del tempo) offendendone l’immagine, secondo la
censura; e qualche anno dopo, Tortora fu esiliato una seconda volta
per aver criticato la dirigenza RAI in un’intervista, paragonando
la tv di Stato a [...] un
jet colossale guidato da un gruppo di boyscout che si divertono a
giocare con i comandi [...].
Con Portobello Tortora
ebbe la sua rivincita, se è vero che il programma alla sua prima
stagione fu tra le trasmissioni più seguite, per essere poi nel 1979
la più seguita in assoluto. Portobello dava
visibilità a tutti coloro che pensavano di avere inventato qualcosa
di nuovo e volevano proporlo al pubblico, a volte vendendone il
brevetto, altre cercando finanziamenti per la produzione. L’inventore
aveva qualche minuto per proporre la propria idea, poi attendeva in
studio che arrivassero le telefonate degli interessati. Fu
probabilmente la prima trasmissione a sfruttare in larga misura le
telefonate in diretta, facendole diventare parte del programma: le
chiamate venivano ricevute da un certo numero di belle ragazze,
alcune delle quali sfruttarono il semplice ruolo di telefonista per
lanciarsi nel mondo dello spettacolo: a tal proposito basta ricordare
i nomi di Gabriella Carlucci, Eleonora Brigliadori e Susanna
Messaggio. Portobello era
una trasmissione seguita da tutti, adulti, ragazzi e bambini, anche
per le stramberie che non di rado venivano mostrate. Qualcuno ricorda
ancora l’invenzione del gelato antisgocciolo o la sveglia che
catapultava il dormiglione giù dal letto, ma, soprattutto, fece
epoca un autista di autobus milanese che, probabilmente stufo del
grigiore del clima lombardo, propose un rimedio per eliminare
definitivamente la nebbia in Val Padana: secondo lui era sufficiente
spianare il Turchino (montagna alle spalle di Genova), così la
brezza marina avrebbe raggiunto la Pianura Padana dissolvendo la
nebbia, eliminando il problema dello smog e persino attenuando la
forza della Bora a Trieste; pare che il conduttore (di origine
ligure), udita la proposta, fosse sobbalzato sulla sedia per la
sorpresa e, pur con il solito garbo, avesse espresso le proprie
perplessità: «Ah... mi perdoni, ma sono proprio di quelle
parti...». Agli inizi non era ancora stabilito se il
sistema di trasmissione ufficiale sarebbe stato il PAL, di tipo
anglosassone, o il SECAM, di modello francese, per cui le gare
olimpiche venivano trasmesse un giorno con l’uno e un giorno con
l’altro sistema; solo qualche tempo dopo l’Italia decise di
adottare il sistema PAL.
[...]
I giovani e la musica
[...] Non c’è dubbio che l’esplosione del rock di stampo inglese e americano, in atto fin dagli anni sessanta, influenzò in modo prepotente tutta la musica mondiale, ma è altrettanto vero che in Italia le novità hanno sempre fatto più fatica a imporsi.
L’Italia è sempre stata considerata la patria del bel canto, della melodia per antonomasia, è la patria di Verdi e di Puccini, del melodramma e della musica operistica, della canzone napoletana famosa in tutto il mondo e, perché no, del Festival di Sanremo, che della musica leggera è sempre stato la naturale celebrazione. Tutto ciò ha fatto sì che nuovi ritmi e nuove armonie, o non-armonie per il giudizio di alcuni, fossero guardate con estremo sospetto da molti e aspramente criticate da coloro i quali consideravano la canzone melodica “all’italiana” un genere intoccabile e inviolabile.
Il Festival di
Sanremo, nel bene e nel male, ha sempre rappresentato lo stato
dell’arte della nostra musica più tradizionale e le edizioni degli
anni sessanta, a volte, hanno visto come vincitori cantanti che
strizzavano l’occhio allo stile canoro degli artisti anglosassoni,
pur mantenendo un’identità tipicamente italiana. Solo per fare
qualche esempio, nel 1960 vinse Romantica,
cantata da Renato Rascel e Tony Dallara (quest’ultimo catalogato
tra i cosiddetti “urlatori”, e non sempre per fargli un
complimento); e nel 1965 vinse Se
piangi, se ridi, cantata da un Bobby
Solo (in coppia con i New Christy Minstrels) che assomigliava sempre
più al lato romantico di Elvis Presley. Non si può non sottolineare
che gli altri vincitori di quel decennio si chiamavano Gigliola
Cinquetti, Betty Curtis, Luciano Tajoli, Claudio Villa, Iva Zanicchi,
tutti nomi che facevano rizzare i capelli in testa agli adolescenti
di allora, soprattutto a quelli che avevano acquistato A
Hard Day’s Night nel
1964 o Sgt.
Pepper’s Lonely Hearts Club Band nel
1967 e, contemporaneamente, avevano visto vincere a Sanremo Non
ho l’età cantata
da Giliola Cinquetti (1964) o Non
pensare a me, cantata da Claudio
Villa e Iva Zanicchi (1967). È anche troppo facile immaginare che i
ragazzi erano tanto attratti dalle chiome e dalle schitarrate dei
Beatles quanto poco lo erano dalle cotonature di Iva Zanicchi e
dall’ugola tenorile di Claudio Villa. [...]
Un pizzico di novità a Sanremo fu introdotto nel 1970 da Adriano Celentano e Claudia Mori, che vinsero in quell’anno con Chi non lavora non fa l’amore, un brano decisamente atipico per lo stile del Festival di quei tempi, quasi un modo per dimostrare che anche a Sanremo si poteva cambiare qualcosa. In realtà Celentano, che in quegli anni stava abbandonando i panni del supermolleggiato trasgressivo per indossare quelli del cantante-predicatore, pur avendo estimatori sia tra i giovani che tra gli adulti, nel 1970 aveva già superato i trent’anni e non impersonava il tipo di contestatore preferito dai ragazzi, pur adottando spesso atteggiamenti anticonformisti (nel 1961 con Ventiquattromila baci era arrivato secondo a Sanremo e aveva fatto scandalo iniziando il brano rivolgendo le spalle al pubblico, deprecabile affronto per quei tempi).
A parte Celentano, se leggiamo i nomi dei vincitori del Festival di Sanremo negli anni settanta, vediamo che la maggior parte di loro non avevano nulla a che fare coi giovani che in quel periodo imparavano a conoscere i Rolling Stones, i Pink Floyd, i Led Zeppelin o i Genesis. È ovvio che coloro i quali nel 1971 ascoltavano Brown Sugar o Sympathy for the Devil dei Rolling Stones non potevano amare Il cuore è uno zingaro che permetteva a Nada e Nicola Di Bari di vincere il Festival; e non avrebbero neppure acquistato i dischi di Peppino di Capri, che nel 1973 vinceva con Un grande amore e niente più, o quelli di Iva Zanicchi che nel 1974 si affermava con Ciao cara, come stai?. Ciò che si nota è che dalla metà degli anni settanta ci fu il tentativo di adeguarsi ai mutati gusti musicali, almeno cercando di far emergere artisti nuovi e più vicini ai giovani. Nel 1975 vinse Gilda con Ragazza del sud, nel 1977 gli Homo Sapiens con Bella da morire e nel 1978 i Matia Bazar con ... e dirsi ciao. In quel periodo quasi scomparvero dalle cronache i tradizionali cantanti melodici, ma anche i nuovi arrivati, per la maggior parte, erano comunque interpreti del genere “all’italiana”.