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Collana Giallo Grano

1 -

An Chéad Leabhar - Tráthnóna

Libro primo - Una sera

Bastano due giorni per trasformare una vita. Ma questo Sibéal1 non lo immaginava.

Davanti allo specchio antico, ripeteva gli stessi gesti di sempre. A goccia a goccia, agitando la boccetta, le sue dita si bagnavano di profumo. Con mano stanca, strofinò i polpastrelli dietro le orecchie e a lato delle tempie. Fece scorrere un rivolo d’acqua di lillà giù sino al seno, che la scollatura fonda metteva in risalto con generosità.

C’erano molti gioielli, nel disordine del tavolino. Prese un paio d’orecchini con il pendente di brillanti e si punse, infilandoli nei lobi delle orecchie.

Un movimento brusco, simile allo scatto di una cerva inseguita, e la giovane donna s’alzò dalla poltrona, facendo tremare l’abat-jour che irradiava luce arancione nella penombra della camera.

Sibéal aveva un’andatura felina, sui suoi tacchi alti. Avanzava lentamente, oscillando. Era slanciata e molto snella. Aveva le gambe lunghe e il collo sottile. L’abito da sera, che le lasciava le spalle nude, la vestiva di vermiglio squillante, fasciando senza pudore le sue forme e aderendo come un’altra pelle alla perfezione del corpo. La collana di granati in tre giri, da cui dondolava un chiassoso diamante, contrastava con la carnagione bianchissima.

Non era truccata. Non si truccava mai: aveva venticinque anni e, nonostante qualche leggero graffio d’espressione, si sentiva sicura della propria beltà e si vantava di poterne fare a meno. Aveva il volto delle donne irlandesi, con gli zigomi alti e il naso capriccioso. Le sue labbra erano bacche selvagge, rosse di un desiderio proibito. I suoi occhi cangianti assumevano gradazioni d’ardente nocciola nel taglio deciso delle palpebre.

La natura le aveva donato una cascata di capelli soffici e ondulati. Erano castani ma illuminati dall’esotica sfumatura del legno di mogano. Li portava raccolti sulla nuca, in petti­nature sempre un po’ pretenziose. Quella sera c’era uno spillone con un grosso granato a fermarli .

Aveva lasciato il ventaglio sul davanzale della finestra. Prendendolo, osservò tra le tende accostate l’imbrunire di Saint Stephen’s Green. Era il più bel giardino alberato della città e Sibéal vi aveva trascorso gli anni sereni dell’adolescenza, rincorrendo le amiche o studiando poesie in riva al laghetto.

Quel tempo era passato.

Lanciò un’occhiata spazientita all’orologio del cassettone. Era costretta ad attendere, benché avesse la mania di giungere a teatro in anticipo per non perdere l’inizio dello spettacolo e per essere notata da chi occupava gli altri palchi. Ma il suo accompagnatore era un incorreggibile ritardatario. Non lo faceva apposta: conosceva talmente tanta gente che, ovunque andasse, incontrava amici con i quali s’attardava a discorrere.

Lo frequentava ormai da qualche mese, le era piuttosto simpatico e le faceva una corte sfrontata. Le aveva proposto di andare a vivere insieme e lei, che tuttavia gli aveva chiesto qualche giorno per riflettere, era quasi certa d’accettare. Quell’uomo era abbastanza ricco da mantenerla. Forse lo amava: glielo ripeteva spesso, come intercalare automatico, quando lui la stringeva tra le braccia così forte da suggerle il fiato.

Le sembrava di odiarlo, altre volte.ava raccolti sulla nuca, in pettinature sempre un po’ pretenziose. Quella sera c’era uno spillone con un grosso granato a fermarli.


***

Lo aveva incontrato nel corso di una serata letteraria uggiosa, cui aveva partecipato perché a casa, altrimenti, si sarebbe annoiata.

Lui era là per scrivere il suo articolo. Era Douglas Doherty, l’acclamato giornalista.

Erano stati presentati da un comune conoscente. Si erano scambiati qualche opinione futile, tanto per parlare di qualcosa. Lui, a quel punto, aveva avuto la spudoratezza d’invitarla a cena, lei quella d’accettare. Davanti a un raffinato piatto francese, Douglas le aveva fatto citazioni esaltanti di Oscar Wilde. Le aveva confessato di ammirarlo più d’ogni altro scrittore. Con voce greve di brame represse, le aveva recitato a memoria un passo ambiguo.

L’aveva riaccompagnata a casa con la sua carrozza. Quando era sceso, si era messo bene in mostra sotto un lampione. E poi… Poi, con impeto improvviso e vorace, l’aveva spinta contro il portone e l’aveva baciata. Quell’insolenza a lei era parsa meravigliosa, perché da tanto tempo nessuno la desiderava.

Sibéal, in fondo, sapeva che ciò che provava per Douglas non aveva niente né di romantico né di nobile. Lui voleva soltanto il suo corpo e lei era così sola che, prima o poi, avrebbe commesso la pazzia di concederglielo. La curiosità di brividi ignoti le falsava in intimo tepore ciò che era un banale sudore di voluttà.

Non aveva mai sognato un uomo come Douglas, nel suo futuro. Persino il contatto con la sua epidermide, quando si accarezzavano e si cercavano, le provocava un senso di repulsione. Era poco più alto di lei, di costituzione robusta. Aveva i capelli scuri, ricci, pettinati all’indietro. Aveva il naso corto e la bocca sottile.

Aveva molto successo con le donne perché, dietro le lenti dei suoi occhiali, che gli conferivano un’aria da intellettuale depresso, le spogliava con un semplice sguardo. Lui le narrava volentieri aneddoti piccanti sulle passate amanti e su godimenti sadici che la turbavano. Sibéal non si faceva illusioni: anche se fosse andata a vivere con lui, Doug non avrebbe rinunciato facilmente alle compagnie lascive né alle bisbocce di lussuria. Non era uomo capace d’accontentarsi dell’abitudine.

Perché non se ne sbarazzava, allora?

Perché temeva la solitudine. Temeva che non le restasse nulla, nella vita, se avesse rinunciato alle grezze attenzioni di Douglas Doherty.

A ciò s’aggiungeva l’orgoglio. La lusingava che un uomo conteso da tante donne desiderasse proprio lei. Che le confidasse con irriverenza di pensarla discinta e di volerla...

Si stordiva nell’idea che, a forza di negarsi, lo avrebbe costretto a donarle, oltre all’eccitazione di una carezza ardita, anche quel bruscolo d’affetto che l’avrebbe appagata ma di cui lui era avaro.

I fallimenti del passato, evidentemente, non le avevano ancora insegnato la verità.


***

Aveva sedici anni, allora.

Aveva conosciuto un giovane attraente e spavaldo. Si chiamava Niall Ó Cuinn2 e aveva lasciato Galway per venire a Dublino con l’ambizione di fare l’attore. Aveva talento e suo padre lo aveva accolto a braccia aperte nella celebre compagnia Learasach3.

Anche Sibéal partecipava alle recite. Aveva esordito in piccole parti. Ma studiava canto e preferiva, tra un atto e l’altro, eseguire antiche arie celtiche con la sua singolare vocalità di soprano.

Niall non le aveva mai detto che era brava. Aveva l’atteggiamento dell’eterno distratto e, pur nel protestarle parole d’amore, era come se pensasse ad altro. Perché, sotto i suoi capelli biondissimi, da vichingo, dietro la fronte spaziosa, si agitava un demone intransigente.

Era il demone della libertà e non permetteva a Niall altre devozioni, se non quella dispotica dovuta all’Irlanda. Tornava spesso all’Ovest, sull’Oceano. L’odore del ferro, del fuoco, del sangue faceva di lui un lupo.

Gli erano sufficienti pochi giorni: accennava a Donncha Ó Learasa4 di una zia costretta a letto, – ed era sempre la stessa zia che non guariva mai, era sempre lo stesso letto da cui la poveretta non riusciva a rialzarsi, – e scompariva.

Ben diversa era la realtà: le sue erano spedizioni punitive ai danni di proprietari terrieri che vessavano i contadini e non avrebbe mai rinunciato a unirsi agli amici di un tempo negli incendi e nei saccheggi.

Niall Ó Cuinn era un feniano. Era cattolico e non andava mai a messa; era repubblicano e non credeva alle promesse dei politicanti.

A Sibéal non importava tutto ciò, purché la baciasse succhiandole il fiato, purché la circondasse sin nell’anima con quelle medesime braccia che reggevano le armi.

Lui le aveva dato in pegno un anellino d’argento. Era la claddagh della sua terra, con il cuore incoronato che veniva sorretto da due mani amiche5. Ma non le aveva mai chiesto di sposarlo. Si giustificava affermando d’essere nemico del matrimonio, che era un’invenzione dei preti. Per tacitare il suo dissenso e per vanificare la sua ansia d’incastrarlo, ammetteva che ci avrebbe pensato più tardi, dopo una folgorante carriera d’attore. Non prima dei quarant’anni, comunque. E intanto... Aveva l’incauta abitudine di allungare le mani, di sollevarle la gonna, di sfiorarle le ginocchia.

Sibéal, pur struggendosi perché le piaceva quel languore d’amore e di carezze, si era sempre difesa da ogni suo attacco. Si era mantenuta casta e pura, ma non per virtù. Aveva sperato piuttosto che lui, stanco di pretenderla e di non poterla avere, avrebbe finito con il metterle la fede al dito.

Niall, che non era stupido e che aveva capito l’infantile gioco del gatto con il topo, le aveva risposto con una sfida crudele: aveva cominciato a spassarsela con le altre attrici della compagnia, che erano più accondiscendenti e disponibili. Pur con il cuore in frantumi, Sibéal non aveva ceduto. La verginità forse era passata di moda ma era la sua unica arma: non l’avrebbe concessa all’adorato avversario e non si sarebbe arresa.

Un giorno, esasperata dalle attenzioni che Niall riservava a una nuova amichetta, una bruna dal seno morbido come un pudding, lo aveva messo con le spalle al muro. Lo aveva ricattato: o lui la sposava, e subito, o lei avrebbe accettato la proposta di un altro.

Niall le aveva riso in faccia e Sibéal, per dispetto, si era promessa a sir Ardal Mac Corra6.


***

Che strano!

Tutte le certezze del passato, in quel momento, si confondevano... Si sentì molto triste.

Che strano... Anche se Niall, proprio in quella sera di noia, fosse tornato da lei, anche se si fosse inginocchiato ai suoi piedi chiedendole perdono, non avrebbe più potuto essere felice.

Afferrò la fulva stola di volpe. Se la mise sulle spalle. Stridente contrasto sull’abito rosso.

Uscì dalla camera e scese al piano di sotto. Nell’atrio sfarzoso di marmi e di vetrate, il lampadario di cristallo rifletteva sulle pareti schegge danzanti d’arcobaleno.

Esitò.

Azzardò qualche passo verso il salotto. Si affacciò alla porta. Là, presso il camino, una donna senza età, vestita di nero, con i capelli severamente tirati e attorcigliati, leggeva un libro. Come avvertì la sua presenza, posò il volume, si tolse gli occhiali da lettura e si alzò. La scrutò, muovendole incontro, ma non l’accolse con un sorriso né con una parola gentile.

«Esci?» le domandò con la sua voce bassa, un po’ afona.

«Sì, Eithne7», le rispose mordendosi il labbro.

Eithne Nic Corra aveva la chioma nera e la pelle olivastra. Forse aveva gli occhi grigi, tra i lineamenti marcati, ma Sibéal non le si era mai avvicinata tanto da accertarlo. Non c’era nulla in lei che suscitasse incanto. L’aspetto fisico rifletteva, piuttosto, l’aridità di un cuore che si era incattivito, che non sapeva più gioire e che si trascinava da un giorno all’altro con la disperazione di un cane inchiodato a una catena troppo corta, a quella stessa catena che lo condanna a stare sempre lontano dal cibo con cui potrebbe ristorarsi e dall’acqua per dissetarsi.

La sua scialba figura era spigolosa e senza grazia, eternamente infagottata nell’abito da lutto. Non c’era un reale motivo che lo giustificasse, perché nessun parente era morto di recente. Forse portava il lutto per se stessa e per la sua esistenza annientata.

Eithne increspò le labbra in una smorfia maligna: «Fai di nuovo coppia fissa con il bel Douglas?» le chiese.

Sibéal arrossì: «Hai intenzione di spifferarlo ad Ardal?»

Eithne si strinse nelle spalle. Tornò solennemente alla sua poltrona.

«E perché dovrei?» rimarcò con cinismo. «Non per questo il mio aguzzino mi aumenterebbe la rendita. Quanto a te, figlia mia, sei ridicola! Credi ancora di permetterti un solo respiro senza che tuo marito ne venga a conoscenza? Fa’ quello che vuoi, mia cara, goditi i tuoi capricci, ma a quel diavolo di Ardal non sfuggirà nulla!»

Sibéal inarcò le sopracciglia, poco convinta. Non le risultava che il consorte l’avesse mai difesa dai tanti uomini che le ronzavano intorno. Nella sua olimpica calma, non si mostrava geloso.

Si congedò: «Buonanotte, Eithne».

La voce di lei, ancora più sorda, la raggiunse alle spalle.

«Divertiti, mia cara!»

Sibéal indietreggiò istintivamente e si resse alla balaustra delle scale. Sospirò. Ringraziando il cielo, non avrebbe più incontrato quella donna sino al giorno dopo.

Non le era ostile, ma la soffocava con la sua amarezza. Le era quasi complice: forse avrebbe voluto esserle amica, di quell’amicizia tiranna che diventa padrona della libertà altrui e che impone condizionamenti; forse avrebbe voluto udire con orecchio morboso le sue lamentele contro Ardal e le sue confidenze d’appuntamenti clandestini.

L’avversione che Eithne nutriva nei confronti del fratello era diventata il suo tragico vanto agli occhi del mondo, perché riteneva che lui fosse responsabile di tutto ciò che le era andato storto nella vita. Sibéal, a onor del vero, non poteva attribuire al marito questa colpa. Lei era molto giovane, allora, ma per fama o per averlo visto qualche volta di sfuggita ricordava l’individuo da cui si era fatta raggirare la cognata. Era uno spilungone gravido di smancerie, che si alzava dal tavolo verde di una bisca per andare a stramazzare ubriaco in un’altra.

Ardal non lo aveva voluto in famiglia, neanche per rappezzare la reputazione di sua sorella. Non la felicità, perché era convinto che non può durare ciò che si edifica sulla sabbia della menzogna. E, poi, Eithne sarebbe stata sposata per i suoi soldi: una vergogna per chi, come lui, disprezzava le unioni dettate dalla cupidigia. Sibéal, in fondo, doveva concedergli la tremenda nobiltà d’animo d’averla difesa.

Nonostante tutto.

Lo squillo acuto del campanello la sorprese. Provò un tramestio di sollievo e di sgomento. Vide il maggiordomo accostarsi al portone. Con un cenno, lo allontanò.

Andò lei stessa ad aprire. Era ansiosa di vederlo, eppure non riusciva a sbrigarsi con i chiavistelli. Lui la attendeva appoggiato allo stipite. Una sciarpa bianca gli pendeva dal collo e aveva il cappello calcato sull’orecchio sinistro. Il suo sguardo si manteneva ironico e un po’ distaccato, persino nell’avidità d’avvolgere e di pervadere il suo abito rosso.

La salutò con lo schiocco delle labbra.

Come Sibéal ebbe richiuso il portone, Douglas la premette contro l’altro stipite. La baciò con violenza.

I suoi baci erano sempre affrettati e privi di quella tenerezza che, per una donna, è reliquia di piacere inebriante. Le fece scivolare la mano lungo il fianco.

«Basta, Doug!» protestò sorridendo e, intanto, lo respinse. «Mi sciupi tutta e mi spettini. Direbbero male di noi, a teatro, se mi vedessero arrivare in disordine».

Douglas rise e levò di scatto il profilo, com’era solito fare.

«Che scandalo! E che potrebbero inventare? Ci adoriamo e tu sei la mia donna». Strizzò un occhio e aggiunse con intonazione languida: «Mi fai impazzire, con questo vestito rosso...»

Sibéal vinse la sensazione di disagio dandogli un bacio sulla guancia.

«Andiamo?»

Douglas serrò le palpebre e s’attardò in un lungo respiro.

«Sì, Sibéal, preferirei averti in altro modo, ma andiamo».

La prese sottobraccio. La carrozza era dall’altra parte della piazza. Le fronde possenti degli alberi velavano l’aureola dei lampioni. Il giardino era fresco, nel buio. Sibéal e Douglas lo attraversarono dialogando sommessamente.Bastano due giorni per trasformare una vita. Ma questo Sibéal8 non lo immaginava.

Davanti allo specchio antico, ripeteva gli stessi gesti di sempre. A goccia a goccia, agitando la boccetta, le sue dita si bagnavano di profumo. Con mano stanca, strofinò i polpastrelli dietro le orecchie e a lato delle tempie. Fece scorrere un rivolo d’acqua di lillà giù sino al seno, che la scollatura fonda metteva in risalto con generosità.

C’erano molti gioielli, nel disordine del tavolino. Prese un paio d’orecchini con il pendente di brillanti e si punse, infilandoli nei lobi delle orecchie.

Un movimento brusco, simile allo scatto di una cerva inseguita, e la giovane donna s’alzò dalla poltrona, facendo tremare l’abat-jour che irradiava luce arancione nella penombra della camera.

Sibéal aveva un’andatura felina, sui suoi tacchi alti. Avanzava lentamente, oscillando. Era slanciata e molto snella. Aveva le gambe lunghe e il collo sottile. L’abito da sera, che le lasciava le spalle nude, la vestiva di vermiglio squillante, fasciando senza pudore le sue forme e aderendo come un’altra pelle alla perfezione del corpo. La collana di granati in tre giri, da cui dondolava un chiassoso diamante, contrastava con la carnagione bianchissima.

Non era truccata. Non si truccava mai: aveva venticinque anni e, nonostante qualche leggero graffio d’espressione, si sentiva sicura della propria beltà e si vantava di poterne fare a meno. Aveva il volto delle donne irlandesi, con gli zigomi alti e il naso capriccioso. Le sue labbra erano bacche selvagge, rosse di un desiderio proibito. I suoi occhi cangianti assumevano gradazioni d’ardente nocciola nel taglio deciso delle palpebre.

La natura le aveva donato una cascata di capelli soffici e ondulati. Erano castani ma illuminati dall’esotica sfumatura del legno di mogano. Li portava raccolti sulla nuca, in pettinature sempre un po’ pretenziose. Quella sera c’era uno spillone con un grosso granato a fermarli.

Aveva lasciato il ventaglio sul davanzale della finestra. Prendendolo, osservò tra le tende accostate l’imbrunire di Saint Stephen’s Green. Era il più bel giardino alberato della città e Sibéal vi aveva trascorso gli anni sereni dell’adolescenza, rincorrendo le amiche o studiando poesie in riva al laghetto.

Quel tempo era passato.

Lanciò un’occhiata spazientita all’orologio del cassettone. Era costretta ad attendere, benché avesse la mania di giungere a teatro in anticipo per non perdere l’inizio dello spettacolo e per essere notata da chi occupava gli altri palchi. Ma il suo accompagnatore era un incorreggibile ritardatario. Non lo faceva apposta: conosceva talmente tanta gente che, ovunque andasse, incontrava amici con i quali s’attardava a discorrere.

Lo frequentava ormai da qualche mese, le era piuttosto simpatico e le faceva una corte sfrontata. Le aveva proposto di andare a vivere insieme e lei, che tuttavia gli aveva chiesto qualche giorno per riflettere, era quasi certa d’accettare. Quell’uomo era abbastanza ricco da mantenerla. Forse lo amava: glielo ripeteva spesso, come intercalare automatico, quando lui la stringeva tra le braccia così forte da suggerle il fiato.

Le sembrava di odiarlo, altre volte.




1. Il nome si traduce con l’italiano Sibilla e si pronuncia Scìbeel.

2. Si pronuncia Gnìall Oo Kign.

3. In questo caso, siccome il cognome non si riferisce a una persona, si preferisce la forma aggettivale del cognome stesso.

4. Si pronuncia Dounnecha Oo L(i)arasa. Nel nome proprio compare l’aggettivo “donn”, che significa “bruno, castano”.

5. In quest’anello, la corona simboleggia la lealtà, le mani l’amicizia e il cuore l’amore. Le donne libere lo portano con la punta del cuore rivolta verso l’unghia, le donne sposate o impegnate con la punta del cuore rivolta al dorso della mano.

6. La pronuncia di questo nome non varia sostanzialmente da come lo leggiamo in italiano.

7. Corrisponde alla grafia inglese Ethna e così si pronuncia. Il suono th diventa una h aspirata.