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Collana Giallo Grano

Scritto nell'anno settimo del pontificato di papa Paolo III


Notte scandita da un alito di preghiera.

Non dormo, la notte; dialogo con il cuore e vi trovo la tenerezza di un tabernacolo di miseria che accoglie luce. Parlo senza emettere suono e qualcuno mi ascolta, nel silenzio deserto della mia stanza. Non ho altri interlocutori, ormai, perché tutte le voci che risero nella mia vita tacciono mute di tomba.  Tu sei lontana, figlia mia; così cerco risposte certe in colui che non mi abbandona. Cerco in preghiera sussurri d'amore e lo spirito s'acquieta contemplando visioni eterne. I miei occhi a poco a poco si placano rapiti su ciò che la realtà sensibile nasconde. Qualcuno mi solleva alla sua guancia, come faceva mia madre quando ero bambina, e mi ripete dolcemente bisbigli di consolazione. Non posso dormire, anzi, non voglio dormire, per non perdere questa confidenza. Verrà il giorno e sarò di nuovo sola; ma quando le tenebre mi circondano e mi custodiscono, allora sparisce ciò che mi distrae, ciò che mi inganna di apparenze e rimane ciò che è vero; l'anima nuda di fronte a chi l'ha creata, di fronte a chi non si stanca mai di abbracciarla, di cingerla di premura e di vestirla di gloria.

***

Anche in quella notte pregavo. 

Non è trascorso troppo tempo da allora eppure i ricordi s’affollano tutti insieme, come sangue che pulsa impetuoso nelle vene dopo la corsa, e fatico a ricostruire con lucidità l’ordine degli eventi.
La memoria mi ritrae infreddolita, in quella stanchezza serena che soppianta il sonno.
Ero piegata sull’inginocchiatoio sotto il quadro della Madonna delle Grazie che recai con me dalla Francia, quando venni sposa in terra di Monferrato. Lo rammenti? Lo fissavate incuriositi, da piccini, perché la Vergine Maria, dal volto di assorto fulgore e dal manto di fondo blu, offre all’orazione dei fedeli suo Figlio, il cui corpicino è martoriato di piaghe. Le morbide membra di Gesù, che invitano alle carezze e all’affetto, sono tagliate, offese dalle ferite che i giocatori d’azzardo e peccatori d’ogni sorta vi hanno confitto con la spada affilata del vizio.
Non si riesce facilmente a staccare lo sguardo dalla violenza imposta a un Dio indifeso; non, almeno, senza passare il fazzoletto sulle palpebre che gocciano lacrime. Io conservo le vostre di fanciulli come il tesoro più prezioso, il tesoro che intercede per tuo fratello e per tua sorella, che sono morti prima di me.
Nel protrarsi dell’oscurità, affidavo alla Vergine gli attimi di ribellione e di malinconia, meno solerti rispetto al passato eppure ancora feroci nel rendermi donna di poca fede.
Fu allora, mentre piangevo il mio nulla e la fragilità della mia carne, che udii l’affollarsi di passi nell’ambulacro.
Mi stupii perché il castello era ammutolito nel riposo e non c’era spiegazione all’affanno di un immediato destarsi. Dapprima deplorai ciò che stava accadendo e che ancora ignoravo, perché mi distraeva dal dialogo con chi sempre mi ascolta; poi mi rassegnai e rimasi in attesa.
Sarebbero venuti da me: è la mia vecchiaia, infatti, che ancora sopravvive alla giovinezza dei miei cari, estinta anzitempo, a reggere le sorti della città.
Contai minuti interminabili, quasi che il mio petto respirasse l’ansia di una premonizione, finché avvertii una mano amica scivolare sul legno massiccio dell’uscio.
«Avanti,» sussurrai.
Il battente ruotò lento sul cardine, lamentando un debole stridio. E apparve il viso mite di Jeannette, che mi custodisce fin dall’infanzia e che una fiaccola rischiarava dal basso. Non scorgevo i suoi occhi ma distinguevo solamente l’arco illuminato delle sopracciglia, sulla buia cavità delle orbite. Una ciocca di capelli bianchi le sfuggiva di sotto il velo, a rivelare la fretta con cui si era vestita per avvisarmi di un’inattesa novità. Il plico che teneva nella mano destra forse me l’avrebbe rivelata.
«Perdonatemi, signora marchesa, se giungo a disturbarvi in piena notte,» esordì con pacata familiarità. «Alcuni stranieri con regolare lasciapassare chiedono di essere ricevuti al più presto e recano una lettera di vostro cugino Francesco, il re di Francia».
M’insospettì che nessuno li avesse fermati: «Com’è possibile? Le porte della città sono chiuse dall’ora del vespro. Devono per forza essere entrati prima, per poi nascondersi chissà dove sino a questo momento. Perché mai hanno agito in questo modo? Perché non sono venuti da me con la luce del giorno?»
«Lo ignoro, mia signora,» mi rispose. E accostatasi a me, che ancora ero inginocchiata sotto il quadro della Vergine, mi porse la lettera cui aveva accennato. «La spiegazione potrebbe dipendere dalle parole del re».
Mi sollevai, presi l’involto e, un po’ infreddolita, sedetti sulla panca presso la finestra. Il chiarore della luna non era sufficiente per leggere e Jeannette mi avvicinò la torcia. Sì, il sigillo di ceralacca era quello di Francesco di Valois: ravvisai subito la lucertola incoronata che sputava fuoco. Lo spezzai fra le unghie, trepidando d’apprendere la verità.
"François, sovrano di Francia, ad Anne de Valois, marchesa di Monferrato
Cara cugina Anne, vi chiediamo di accogliere come se fosse vostro figlio il giovane che noi abbiamo l’onore di proteggere, che è stato presso la nostra corte compagno di giochi del Delfino di Francia e la cui vita è minacciata da gravi pericoli. Si tratta di Gearóid Mac Gearailt, conte di Cill Dara, e non ha ancora compiuto quindici anni. Potenze a noi nemiche ne pretendono la morte e, come cani allenati alla caccia, hanno sciolto sicari agguerriti sulla sua fuga attraverso l’Europa. Solo quando giungerà a Roma, presso suo zio, il cardinale d’Inghilterra Reginald Pole, anche lui in esilio, il ragazzo sarà al sicuro. Per il momento lo affidiamo a voi, affinché trascorra presso la vostra dimora questi pochi mesi e possa rimettersi in viaggio quando l’inverno cederà alla primavera. La sua vita è per noi di inestimabile valore, cara cugina, per contrastare l’eresia che, quale peste fierissima, si sta diffondendo nelle Isole Britanniche. Per questo, in nome di Dio, vi preghiamo di custodire il giovane conte come se fosse carne della vostra carne, nella certezza che sarete ricompensata da Colui che regge le sorti del mondo intero. Che Iddio vi benedica e vegli sempre sul Monferrato, che l’imperatore stesso ha sottomesso alla vostra saggezza.
François "
L’ultima frase dello scritto fu quella che mi colpì. Capii che anche Carlo V, da sempre feroce avversario di Francesco e contro il quale aveva condotto guerre devastanti, aveva interesse che questo misterioso ragazzo arrivasse sano e salvo a Roma. Gli antichi nemici, ora silenti in riottosa tregua, erano costretti a collaborare per il bene della fede in Cristo.
Come avrei potuto oppormi io, che sono anziana e che esercito il dominio su un territorio così esiguo, alla volontà dei signori del mondo?
Ma obbedire mi costava, mi costava come sangue che viene succhiato da un morso di belva. Perché in ogni giovinetto io rivedo tuo fratello, il marchese Bonifacio, che la morte aggredì diciottenne sottraendo alla famiglia Paleologo la corona marchionale.
E Francesco mi imponeva di trattarlo come se fosse carne della mia carne?
Con quale crudeltà pretendeva questo da me, cui sono stati strappati da tempo gli affetti più cari?
Decisi a priori che avrei fatto tutto il possibile per preservare il piccolo conte, senza lasciarmi tuttavia coinvolgere nella commozione materna, di cui il mio cuore è ormai avaro.
«Avvisa questi stranieri di attendermi e conducili nel mio studio: io intanto mi vestirò e li raggiungerò in breve».
«Mi permettete di aiutarvi, mia signora?» mi propose premurosa Jeannette.
«Indosserò semplicemente la sopravveste nera sulla camicia. Ti chiedo la gentilezza, cara Jeannette, di togliere dal cassone quella di velluto, che è più pesante».
Vesto di nero, da quando sono vedova. Muta piuttosto la stoffa degli abiti, per ripararmi dal rigore o dalla calura delle stagioni. E non porto gioielli se non la croce d’oro da cui scendono tre pendenti di perla, quasi una lacrima per ogni mio lutto.
Jeannette, che aveva acceso il lume a olio, distese la mia sopravveste sul letto e poi si ritirò. Rimasi in ascolto dei suoi passi che si perdevano sul pavimento di cotto, oltre la porta chiusa.
Non avevo fretta, anzi, tendevo a procrastinare l’incontro con gli sconosciuti ospiti.
Alla fine infilai la sopravveste, legai i tre lacci che stringevano ciascuna manica sulla camicia bianca e serrai la cintura alla vita. Presi la cuffia di velluto nero e mi diressi allo specchio ovale, appeso sulla parete di fronte al letto.
Più di trent’anni sono trascorsi da quando entrai fanciulla nelle terre del mio sposo. Lodavano la mia leggiadria, allora, perché la natura non era stata avara nel rendermi degna di lui. Avevo un fisico snello come quello di una canna palustre che danza nel vento e la mia pelle aveva la trasparenza che un raggio di luna adagia sull’alabastro della vetrata. Il naso diritto ombreggiava la gaiezza del mio sorriso e gli occhi scuri facevano un vivace contrasto con i capelli castani, dal tono dorato d’autunno. Li portavo acconciati alla ferronière, con una casta scriminatura al centro e con una perla rosata sulla stringa di seta che mi cingeva la fronte per contenere la dolcezza dei sogni e per fissare alla nuca la piccola calotta ricamata dalla quale pendeva la treccia opulenta di ricci e intrecciata di nastri.
Adesso i miei capelli sono grigi, spenti alla gioia.
Fui rapida nell’appuntare sotto la cuffia la treccia greve, quasi a recidere con un taglio di stiletto l’immagine di colei che non ero più.
Ero pronta e nulla mi tratteneva ancora, se non il timore di risvegliare attraverso il futuro, che mi braccava, le sofferenze mai sopite del mio passato. 

***

Si scaldavano presso la fiamma del camino, quando io entrai. Jeannette lo aveva acceso per offrir loro ristoro e il riverbero rosso li colorava di fuoco.
Erano in quattro e mi apparivano come un groviglio di braccia, di schiene e di teste.
Drizzarono gli sguardi, nell’accorgersi della mia presenza, e abbassarono la fronte in segno di deferenza. Una figura, allora, si staccò di qualche passo dal gruppo e s’inchinò, allargando le mani a sostenere la stoffa della sottana. Scoprii che era una giovane donna dall’espressione spaurita.
«Benvenuti,» mormorai in francese.
Si fece avanti un uomo maturo e lento nel fisico massiccio. Adesso che le fiaccole lo illuminavano, lo distinguevo meglio. Dimostrava una cinquantina d’anni e aveva il volto sbarbato. Tra i capelli brizzolati notai che portava la tonsura e capii che si trattava di un religioso. Vestiva di nero, infatti, ma l’abito da viaggiatore aveva sostituito la veste monastica.
«Signora marchesa, sono padre Thomas Leverous, 1» precisò con voce un po' rauca «e imploro la vostra gentile ospitalità in nome del mio pupillo, il conte di Cill Dara 2» 

Vidi il ragazzo.
Era smilzo, quasi gracile, ma mi venne incontro con agile disinvoltura. Aveva davvero quindici anni? Mi sembrò poco più che un bambino sebbene i suoi occhi castani fossero già cupi come quelli di un adulto. Probabilmente si trovava in quell’età d’ombra in cui i sogni dell’infanzia sono soffocati dalla corsa verso la vita. La carnagione di neve, segnata qui e là da qualche cicatrice di vaiolo, faceva un singolare contrasto con la chioma ricciuta e mora, che gli scendeva sino a metà del collo, e il viso scarno e lungo, dal naso appuntito, aveva come unica dolcezza gli occhi castani che mi fissavano attraverso le palpebre dal disegno dritto e allungato. Le sopracciglia arcuate ingentilivano i tratti troppo maschi, mentre l’espressione incuriosita era ancora di fanciullo.
Non mi colpì per la sua bellezza: il mio cuore ferito di madre fu rassicurato dal suo aspetto ordinario, che non minacciava il ricordo di Bonifacio, mio figlio, del quale persino a Venezia si era celebrata la bionda avvenenza.
Questo giovinetto, invece, era più piccolo di statura e l’ampio farsetto che indossava gli appesantiva le spalle esili. Mi colpì per la foggia: era bipartito sul petto, bianco a destra, cremisi a sinistra e anche le maniche erano a righe verticali bianche e rosse. Dovevano essere le tinte dello stemma della sua casata. La camicia che sfuggiva all’abbottonatura aveva un singolare colore dorato: mi avrebbero spiegato in seguito che soltanto gli eredi delle grandi famiglie d’Irlanda avevano il diritto di vestirla. Vi portava sotto un paio di braghe nere che si aggrinzivano sulle gambe magre. Una strana similitudine lo associava alla scimmietta addomesticata che teneva in braccio e che, vivace, gli montava a tratti sugli omeri. Alla bestiola era stato infilato un identico giubbetto bianco e rosso.
S’avvide che guardavo l’animale e mi parlò senza timidezza, con il timbro brunito di chi diventa uomo: «È un dono che mi fece il re Francesco di Francia, quando vivevo negli appartamenti del Delfino. La sua presenza vi disturba, mia signora?»

Scossi il capo e gli sorrisi: «Chi siete, figliolo?» gli chiesi piuttosto.

«Il mio nome è Gearoid Mac Gearailt 3 e mio padre fu viceré in Irlanda. Mio fratello si ribellò a Enrico, sovrano d'Inghilterra: per questo non ho più nulla e fuggo come la volpe circondata dai battitori durante la caccia».

Una pena profonda mi oppresse il petto: il tono scabro e rassegnato di quelle parole, che echeggiavano bizzarre nella bocca di un ragazzo, sconvolse il mio proposito di tenerlo a distanza e mi instillò nell’anima fremiti di compassione.
«Vi prometto che nella mia dimora sarete al sicuro, giovane conte di Cill Dara».
Le sue labbra sottili presero una piega amara.
«Non datevi peniero per me, mia signora: mi perseguiteranno anche qui, infatti. Ma forse sarò fortunato e scamperò di nuovo al pericolo. Ho chi veglia su di me e, grazie a Dio, è il miglior guerriero della mia  tuath 4 , la famiglia a cui appartengo. Vi presento mio cugino Aralt 5 Mac Gearailt».
Si fece da parte e con il braccio teso mi indicò il terzo uomo, che rimaneva ancora accanto al camino.
Di statura imponente e di superba corporatura, aveva tutto ciò che il suo piccolo signore non possedeva.
Larghe le spalle e stretta la vita, il farsetto scarlatto gli donava come se gli fosse stato cucito addosso e le braghe candide e attillate mettevano in mostra la muscolatura vigorosa della gamba. Calzava gli stivali neri con le fibbie di lato che in Francia chiamiamo heuses, dall’ampio risvolto sotto il ginocchio rivestito dello stesso velluto sanguigno del farsetto. Al fianco, allacciata al cinturone di cuoio scuro, aveva una lunga spada da soldato. I capelli ondulati gli ricadevano sul dorso, lucenti d’un rosso cupo come mai avevo visto. I baffi spioventi oltre il mento, che una breve barba copriva, ingannavano riguardo alla sua età. In principio credetti che avesse superato la trentina, ma appresi in seguito che Aralt aveva soltanto venticinque anni. Mi salutò senza un sorriso, accompagnando con voce grave un rapido cenno del capo. E quando ne incontrai gli occhi di gemma, che splendevano come ambra scura, non vi trovai benevolenza né simpatia, ma una concentrazione selvaggia che incuteva paura. Il suo sembiante di statua antica era bellissimo e terribile.
«Permettetemi infine di introdurre al vostro cospetto Léan 6 , che in questi anni di esilio si è presa cura di me come una sorella maggiore,» riprese il piccolo conte, accarezzando la scimmietta come se avesse voluto stregarla.  «Eccola davanti a voi: è la moglie di Aralt».
La ragazza s’inchinò una seconda volta. Era molto graziosa, alta e slanciata nella sopravveste di broccato verdone, ma il marito non la degnava di un’occhiata. Come se la tollerasse a malapena. Il suo viso, dai lineamenti puri e delicati, quasi fossero stati dipinti da un bravo pittore per l’affresco di un’Annunciazione, palpitava. Fremeva nell’ansia di comunicarmi qualcosa che io non riuscivo a intendere. Gli occhi di zaffiro tra le folte ciglia corvine mi supplicavano, eppure io non comprendevo. Una lunga treccia di capelli neri, più adatta a una vergine che a una donna sposata, benché non ancora ventenne, le scivolava tra le scapole fin sul bacino.
Mi diede l’impressione di un’anima buona e generosa e tu sai, figlia mia, che difficilmente sbaglio nel valutare una persona: chi tiene tra le mani le sorti di un regno, per quanto modesto esso sia, non può permettersi errori di giudizio.
L’urgenza che ostentava, per rivelarmi ciò che mi era ignoto, mi metteva a disagio perché era come se mi volesse parlare di nascosto dagli altri tre.
Mi piaceva la sua semplicità senza artifici, quella freschezza che il trucco non deturpava, quell’abito sobrio che le fasciava le forme armoniose e che era privo di fronzoli e di civetteria.
«Sarete stanca, figlia mia,» mi rivolsi a lei, per placarla. «Ho fatto preparare le camere affinché possiate riposare un poco, prima che sorga il nuovo giorno. Domani mi spiegherete meglio, se vorrete, che cosa vi conduce alla mia dimora. Adesso è tardi e siete reduci da un viaggio faticoso».
«Le camere?» ripeté lei attonita. L’accento straniero s’avvertiva maggiormente nella sua voce lieve. Gettò un rapido sguardo al marito, come se fosse intimidita. «Potrei averne una solo per me, per rinfrescarmi e per cambiarmi?»
Dedussi che non ci fosse intimità tra i due sposi. Probabilmente si trattava di un matrimonio combinato dalle rispettive famiglie, di un matrimonio che era mal sortito.
Anche per me ci fu un matrimonio combinato, tanti anni fa, ma io mi innamorai di Guglielmo non appena lo vidi.
I due giovani, in verità, erano fatti per intendersi: entrambi di singolare bellezza, erano altresì dotati di nobiltà, di cultura e di educazione. Soltanto il carattere li divideva, rendendo inconciliabile il truce cipiglio di lui con la sensibilità riservata di lei.
«Naturalmente,» le risposi. «Ignoravo chi foste, così ho dato ordine ai miei domestici affinché fosse disposta una stanza privata per ognuno di voi. Mi auguro con tutto il cuore che le troviate confortevoli».
Fu il piccolo conte a ringraziarmi: «Mia signora, è più di quanto noi osassimo sperare, bussando alla porta del vostro castello. Non so per quanto ci tratterremo, perché sto aspettando una lettera da Roma con le indicazioni sul mio futuro, ma per ogni giorno che trascorrerò sotto il vostro tetto vi prometto la mia umile gratitudine».
Sapeva rendersi gradito, quel ragazzo. Il suo aspetto fisico, a prima vista, non attirava la compiacenza. Quando sorrideva, tuttavia, come in quel momento, l’espressione lo trasfigurava. Si compiva un sortilegio che incantava chi gli era accanto. Forse sarebbe persino diventato un bell’uomo, crescendo, se l’esercizio fisico lo avesse irrobustito e si fosse addolcita la sua eccessiva magrezza.
«Che il Signore vi benedica e vi custodisca nel riposo!» augurai loro. «Buona notte!»
«Nella mia lingua si dice Oiche mhaith 7 , mia signora,» mi spiegò gentilmente Gearoid. «Che il Signore benedica anche voi, oggi e sempre!»
Aveva innato il garbo del seduttore, che esercitava quasi con noncuranza. Mi spaventò il pensiero che potesse servirgli in futuro per plagiare chi lo ascoltava, illudendolo con il miele di parole amabili.
Chi era davvero e quali magie sarebbe stato in grado di suscitare?
Intanto la scimmietta gli si era addormentata tra le braccia.
Si congedarono, uscendo dalla porta che avevo di fronte a me. Il primo fu il sacerdote, sul quale la mia attenzione era scorsa via rapidamente. Aralt attese con deferenza rude il suo acerbo signore.
Alla fine se ne andò anche Léan.
Ma non appena mi girai, per ritirarmi a mia volta, ecco che tornò indietro e che si gettò ai miei piedi.
Sollevò a me gli occhi umidi e mi supplicò a mani giunte: «Signora marchesa, guardatevi da mio marito. Qualunque cosa capiti, non fidatevi di lui!» Corse via, urtando contro il tabouret8 di legno di quercia su cui siedo per ricamare.
Io restai immobile, mentre dentro tremavo nel dubbio


1. Padre Thomas Lever (1487 circa – 1577) di probabile origine bretone e futuro vescovo di Kildare, sotto Maria I Tudor, dal marzo 1555 al 1560.
2. Kildare in inglese. Il toponimo significa “Chiesa di quercia”. Si pronuncia: Kill Dara.
3. Si legge: Ghiàroid Mocc Ghiàrraltc. È più noto con il nome nella versione anglosassone, ossia Garrett (o Gerald) Fitzgerald, undicesimo conte di Kildare (28 febbraio 1525 – 16 novembre 1585).
4. Si tratta della tribù irlandese, formata da più famiglie con un capostipite comune e guidata da un capotribù. Col tempo il termine fu utilizzato per indicare i territori su cui dominava la tribù . Si pronuncia: tùah.
5. Si pronuncia all’incirca come si scrive: Àralt, e corrisponde al nome inglese Harold. Nobile della famiglia Fitzgerald (1515 circa - ?), forse figlio naturale di Risteard Mac Gearailt di Fassaroe, zio dell’undicesimo conte di Kildare.
6. Si legge: Lèen e corrisponde al nome italiano Elena. Una curiosità: il sostantivo irlandese “léan” significa “tristezza”.
7. Si pronuncia: ìchieh wah. L’aggettivo “maith” = buono, qui risulta lenito (la consonante iniziale è seguita dalla lettera h, che ne muta il suono, perché segue il sostantivo “oíche” = notte, che è femminile).
8. Specie di sgabello con le gambe a forma di X.


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